Dalla periferia fiorentina un esempio di microcredito di prossimità, costruito sulle esigenze degli abitanti di un quartiere del 'ricco' Nord del mondo
24 novembre 2011
15 novembre 2011
ASSEMBLEA
DEI SOCI
DEL
FONDO
ETICO E SOCIALE DELLE PIAGGE
SABATO
26 NOVEMBRE 2011 alle ore 17,30
Centro
Sociale “IL POZZO”
via
Lombardia, 1/p tel. 055373737
L'Assemblea è aperta a tutte le persone interessate
alla
fine dell’assemblea chi lo desidera potrà cenare insieme
sono
graditi contributi eno-gastronomici da condividere
siamo
tutti invitati a portarci piatto, posate e bicchiere
02 novembre 2011
Progetto Piccoli Prestiti Piagge
1.
Obiettivo
Il Progetto Piccoli Prestiti
Piagge è una lente di ingrandimento sui bisogni del quartiere. Esso nasce dal
Fondo Etico e Sociale delle Piagge per dare adeguate risposte a richieste di
prestiti di entità minima garantendo efficienza e leggerezza organizzativa.
Il Progetto Piccoli Prestiti si
avvale dello strumento del micro-credito, il quale si basa sulla fiducia che viene data alle persone prive di garanzie
materiali per la restituzione del credito concesso ma che hanno idee e volontà
di realizzare percorsi significativi per sé e per gli altri. Il
micro-credito è dunque inteso non solo come puro strumento finanziario ma anche
con l’intento di sostenere legami e vincoli più forti all’interno della
comunità locale, in quanto la partecipazione allo sviluppo del benessere è
collettiva e la coesione sociale un importante obiettivo da raggiungere.
La tipologia di credito del
Progetto Piccoli Prestiti evidenzia un’attenzione particolare verso i micro
bisogni e le necessità impellenti delle persone che richiedono prestiti di
piccola entità. Tali prestiti sono spesso troppo onerosi da gestire da un punto
di vista formale e burocratico attraverso il Fondo Etico e Sociale delle Piagge,
da qui la necessità di creare un organismo capace di lavorare in modo autonomo
per rispondere tempestivamente e in modo creativo alle esigenze del territorio.
2.
A chi si rivolge
Il Progetto Piccoli Prestiti è
rivolto alle persone che abitano nel quartiere Le Piagge e che hanno compiuto
il diciottesimo anno di età.
Il Progetto Piccoli Prestiti
crede nella valorizzazione delle capacità del singolo individuo che agisce in
modo creativo sul territorio, nella sua responsabilizzazione nella restituzione
del prestito affinché altri possano usufruire degli stessi benefici e nella
partecipazione attiva alle attività di micro-credito di cui lo stesso ha
beneficiato.
3.
Entità del prestito
Fino a 500 euro.
4.
Modalità del prestito
Le persone che intendono
usufruire del micro-prestito devono scrivere una lettera di richiesta nella
quale indicano l’importo, la motivazione e la persona del quartiere,
possibilmente non un familiare, che li sosterrà nella richiesta di prestito e
fungerà da “accompagnatore relazionale”. La lettera verrà letta da un gruppo di persone
della Commissione, le quali valuteranno la situazione in modo attento. L’erogazione
del prestito avviene dopo uno o più incontri con alcuni membri della Commissione,
la quale si prende il tempo necessario per decidere. Una volta accettata la richiesta
di prestito è necessario che una persona della Commissione faccia da referente
oppure si occupi di trovare il referente. Al fine di rendere le diverse
attività della comunità partecipi dell’iniziativa e responsabili di questo
progetto, il referente scelto da ciascuno dovrà essere parte di una delle
attività in cui si impegna chi lo sceglie.
L’importo delle rate con cui sarà
restituito il prestito viene deciso insieme alla persona che lo richiede e la
restituzione dovrà comunque avvenire entro massimo 2 anni.
Le richieste vengono ordinate
cronologicamente per data di arrivo, all’interno di questo ordine il Progetto
Piccoli Prestiti riserva una corsia preferenziale ai bisogni legati allo studio e alla formazione culturale della persona.
Il prestito non è gravato da
alcun interesse.
La persona che richiede un
prestito ha l’opportunità di diventare socio del Fondo Etico. Dell’ultima rata
della restituzione del prestito 25 euro vengono utilizzati per aderire con una
quota al Fondo Etico e Sociale delle Piagge. La quota di adesione è infatti di
25 euro. Per far rientrare la suddetta quota da mettere a disposizione per
attuare altri prestiti, la Commissione si impegna ad organizzare uno o due eventi
l’anno cercando di coinvolgere il maggior numero di persone che hanno ricevuto
un prestito.
La persona che ha già ricevuto un
prestito può richiederne un altro solo quando il precedente sia stato
completamente estinto.
Ad ogni assemblea del Fondo Etico
e Sociale delle Piagge la Commissione del Progetto Piccoli Prestiti informerà
tutti i soci sui prestiti erogati e gli stessi verranno riportati sul Fondo
Informa.
5.
Disponibilità
10.000,00 euro messi a
disposizione dal Fondo Etico e Sociale delle Piagge. Per scelta i soldi
verranno depositati in un libretto di risparmio postale.
6.
Composizione della Commissione
1-2 persone della Commissione del
Fondo Etico
1 persona dell’attività scuola
1 persona della Cooperativa Il
Pozzo
1 persona della Cooperativa
Equazione
1 persona referente della
Comunità
1 persona della Cooperativa Il
Cerro
1 persona del GASP (Gruppo
d’Acquisto Solidale Piagge)
1-2 persone che hanno usufruito
di un piccolo prestito
13 ottobre 2011
26 settembre 2011
18 settembre 2011
ASSEMBLEA DEI SOCI
DEL
FONDO ETICO E SOCIALE DELLE PIAGGE
SABATO 24 SETTEMBRE 2011 alle ore 17,00
Centro Sociale “IL POZZO”
via Lombardia, 1/p tel. 055373737
L'Assemblea è aperta a tutte le persone interessate
alla fine dell’assemblea chi lo desidera potrà cenare insieme
sono graditi contributi eno-gastronomici da condividere
siamo tutti invitati a portarci piatto, posate e bicchiere20 agosto 2011
Una manovra disperata, iniqua e senza futuro
“Una manovra disperata, iniqua e senza futuro”, questo il giudizio della campagna Sbilanciamoci! sulla manovra del governo varata lo scorso 14 agosto. E’ una manovra che non rilancia l’economia, non aggredisce strutturalmente il problema del debito, non colpisce i privilegi, mentre si accanisce ulteriormente contro i lavoratori, i pensionati, i cittadini. Il taglio di quasi 10 miliardi di euro ai trasferimenti verso gli enti locali comporterà la chiusura di molti servizi sociali e l’aumento dei tributi locali. Al provvedimento del governo, Sbilanciamoci! contrappone una sua contromanovra da 60 miliardi, 30 da destinare alla riduzione del debito e 30 al rilancio dell’economia, alla difesa dei redditi , al welfare, alla protezione dei più deboli, alla scuola e all’università. L’introduzione di una tassa patrimoniale, una sovrattassa del 15% sui capitali evasi e beneficiati dallo scudo e la riduzione del 20% delle spese militari, queste le proposte principali sul fronte delle entrate e di riduzione di spesa.
Scarica la versione integrale della Contromanovra
Una manovra iniqua ed economicamente devastante
di Vladimiro Giacché
su l'Ernesto Online del 17/08/2011
La manovra ferragostana del governo Berlusconi-Tremonti da 50 miliardi di euro e' peggiore delle previsioni più pessimistiche.
Per quello che contiene e per quello che non contiene.
Ecco quello che contiene:
ATTACCO AL SALARIO E AI DIRITTI DEL LAVORO
La manovra contiene innanzitutto un attacco al salario e ai diritti del lavoro dipendente di portata inedita, che si può sintetizzare come segue:
Attacco al salario
1. Tagli al salario diretto dei dipendenti pubblici. I dipendenti delle amministrazioni pubbliche che non rispettano gli obiettivi di riduzione della spesa perderanno il pagamento della tredicesima mensilità.
2. Tagli al salario indiretto di tutti i lavoratori. Questo e' il risultato inevitabile della riduzione di 6 miliardi di trasferimenti dallo Stato agli Enti Locali per il 2012 e per 3,5 miliardi nel 2013, come pure dell'incentivo alla privatizzazione dei servizi pubblici locali (a questo riguardo si usa a sproposito il termine di "liberalizzazione", ma si tratta di una mistificazione in quanto la gran parte di questi servizi sono monopoli naturali). Lo stesso effetto avranno, almeno in parte, i tagli ai Ministeri per 6 miliardi nel 2012 e per 3,5 miliardi nel 2013. E anche la soppressione delle province sotto i 300.000 abitanti e la fusione dei comuni sotto i 1000 abitanti. E' infatti certo che queste misure si tradurranno in minori servizi o servizi più cari per i cittadini. Oltretutto va ricordato che i lavoratori e i pensionati sono già stati colpiti a luglio dai tagli sulle deduzioni fiscali , sulle indennità assistenziali, sugli asili e su altri servizi che in particolare i Comuni dovranno ridurre.
3. Tagli al salario differito dei lavoratori. Per i lavoratori pubblici questo avverrà tramite il pagamento con due anni di ritardo (e senza interessi) dell'indennità di buonuscita. Per tutti i lavoratori questo e' il risultato dei previsti interventi disincentivanti per le pensioni di anzianità (con anticipo al 2012 del requisito di 97 anni tra eta' anagrafica e anni di contribuzione). Infine, un segnale di attenzione specifico nei confronti delle donne: viene anticipato dal 2020 al 2015 l'inizio del progressivo innalzamento a 65 anni dell'età pensionabile per le donne del settore privato.
Attacco ai diritti del lavoro
1. La manovra consente di derogare a livello aziendale a quanto previsto dai contratti nazionali su "mansioni, classificazione e inquadramento del personale, disciplina dell'orario di lavoro, modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro" (cose in buona parte già previste dall'infelicissimo accordo firmato anche dalla CGIL il 28 giugno scorso), ma anche sul "recesso dal rapporto di lavoro", ossia sui licenziamenti, con la sola eccezione - bontà loro - del "licenziamento discriminatorio" e del "licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio". Nelle intenzioni del governo, si potrà così aggirare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori ed effettuare licenziamenti anche non per giusta causa.
2. C'e inoltre (art. 8, par. 3 del decreto legge della manovra) anche un avallo postumo ai colpi di mano della Fiat su Pomigliano e Mirafiori che sinora – va detto – non hanno granché giovato alle sorti della ex casa automobilistica italiana, con vendite e quotazioni azionarie in caduta libera (evidentemente le bastonate ai lavoratori non sono un colpo di bacchetta magica che risolve i problemi aziendali).
3. Infine, per quanto riguarda il pubblico impiego, viene introdotta la libertà di trasferimento del personale anche in altra città, e l'assegnazione a mansioni superiori e di maggiore responsabilità a parità di stipendio.
ATTACCO ALLA DEMOCRAZIA
1. La manovra forza la privatizzazione dei servizi pubblici locali. Questo rappresenta una evidente violazione della volontà popolare, che si e' espressa di recente con assoluta chiarezza nei due referendum sull'acqua. Anche questo e' gravissimo.
2. Il continuo richiamo degli esponenti del governo alla "lettera della Bce" – inviata al governo in occasione del tracollo dei titoli di Stato ad inizio agosto e contenente le misure urgenti da adottare, probabilmente in qualche caso strumentale e finalizzato a scaricare su qualcun altro le colpe delle parti più inaccettabili della manovra – pone l'accento su due inquietanti novità dell'attuale situazione: a) la perdita della sovranità nazionale su scelte politiche di fondamentale importanza, per di più a favore di organismi non eletti ma nominati (come appunto è la Bce; ma il discorso non sarebbe sostanzialmente differente per la Commissione Europea); b) il ritorno agli arcana imperii della diplomazia segreta: infatti dei contenuti di questa lettera né il Parlamento italiano né l'opinione pubblica sa assolutamente nulla, oltre al fatto che esiste. Se consideriamo che gli organismi dell'Unione Europea perdono molto del loro tempo a dare lezioni di democrazia al resto del mondo, davvero non c'è male. Ma al di là di questo aspetto – diciamo così – di stile e di coerenza, è importante rilevare qualcosa di ben più importante: il tentativo dell'establishment europeo di sottrarre al libero dibattito e alla pubblica discussione le scelte di politica economica cruciali rispetto alla crisi in atto. Tra ukase segreti e presunti "percorsi obbligati per il risanamento dei conti pubblici", i provvedimenti economici dei governi acquisiscono un'aura di obbligatorietà e di inevitabilità: escono dalla sfera delle scelte politiche e divengono presunte necessità dettate da tecnocrazie infallibili e super partes. Si tratta di una mistificazione che va combattuta con la massima energia: non ci sono misure necessarie. E la stessa riduzione del debito via austerità è una scelta politica e di classe che va contrastata con forza. Nel caso italiano, come vedremo più avanti, essa è non soltanto iniqua ma dannosa per le stesse sorti della nostra economia.
ATTACCO AI SIMBOLI DEL LAVORO E DELL'ITALIA ANTIFASCISTA E REPUBBLICANA
L'abolizione delle festività laiche (25 aprile, 1 maggio e 2 giugno) non ha alcun significativo effetto sull'aumento della produzione e del prodotto interno lordo. Ha invece un significato simbolico da non sottovalutare: è la cancellazione di date simbolo – e con ciò un attacco ai valori fondanti – dell'Italia repubblicana e antifascista. Non stupisce che una forza politica secessionista e antinazionale come la Lega e un Pdl che sempre più chiaramente si pone come forza politica di riferimento della peggiore feccia fascista di questo Paese tentino questo affondo. La cui giustificazione "europea" è in questo caso particolarmente falsa e pretestuosa (si provi anche soltanto ad immaginare l'eliminazione del 14 luglio in Francia). Del resto, non si può che apprezzare la coerenza della manovra sul punto: è perfettamente conseguente, dopo aver colpito il lavoro e la democrazia, calpestarne le date simbolo.
Dopo aver visto quello che la manovra contiene, passiamo ad esaminare quello che non contiene:
NIENTE CONTRO L'EVASIONE FISCALE
1. In una manovra da 50 miliardi di euro, e in presenza di un'evasione fiscale che annualmente sottrae gettito per 120 miliardi di euro, le maggiori entrate previste in relazione alla lotta all'evasione ammontano a meno di 1 miliardo di euro.
2. Anche questa ridicola cifra è in realtà presunta, perché nessuna delle misure contenute in manovra appare in grado di incrementare significativamente il contrasto all'evasione (la stessa tracciabilita' delle transazioni superiori ai 2.500 euro è molto meno efficace della soglia introdotta dal governo Prodi II e soppressa come primo atto di questo governo). La verità è che nel caso della lotta all'evasione è evidente l'intento del governo di non colpire la propria base sociale: quella piccola e media borghesia parassitaria che costituisce ormai da decenni la vera palla al piede dello sviluppo economico italiano.
NESSUNA TASSAZIONE DEI GRANDI PATRIMONI
1. La manovra non prevede alcuna tassazione dei grandi patrimoni.
2. Lo stesso prelievo di solidarietà del 5% oltre i 90.000 euro di reddito e del 10% oltre i 150.000 euro, oltre ad essere edulcorato in vari modi (deducibilita' fiscale parziale, pagamento solo sino al raggiungimento del tetto massimo di aliquota del 48%), non può essere considerato una vera e propria patrimoniale, e si rivolge ad una platea molto ristretta di contribuenti: essenzialmente lavoratori dipendenti ad alto reddito.
3. Come se non bastasse, su questa tassazione, e solo su questa, una parte del Pdl, su probabile istigazione dello stesso Berlusconi, sta inscenando delle barricate che serviranno ad abbandonare questa misura, magari in cambio di un aumento delle tasse indirette (che per loro natura non sono progressive).
NESSUNA MISURA PER LA CRESCITA
1. La manovra non contiene nessuna misura né per la crescita economica né per l'incremento della produttività totale dei fattori che è il vero nodo di fondo della perdita di produttività che contraddistingue il nostro Paese da oltre un decennio. Ecco le misure essenziali per la crescita che nella manovra non ci sono:
2. Investimenti in: a) formazione di base e universitaria (questo governo li ha drasticamente ridotti); b) ricerca e sviluppo tecnologico (idem come sopra); c) infrastrutture utili (a questo governo interessano solo quelle inutili, come ponte sullo Stretto e Tav in Piemonte, mentre tutti gli altri investimenti infrastrutturali sono bloccati);
3. Riordino delle agevolazioni pubbliche alle imprese, che oggi costano decine di miliardi e sono fonte di infiniti sprechi e ruberie. Le agevolazioni oggi in essere andrebbero drasticamente ridotte, a favore di incentivi che favoriscano la concentrazione industriale (il nanocapitalismo italico, favorito dall'evasione fiscale, è diventato uno dei vincoli più gravi allo sviluppo) e gli investimenti in ricerca e innovazione da parte delle imprese private italiane (che da questo punto di vista sono il fanalino di coda in Europa).
4. Restituzione allo Stato di compiti di orientamento dell'economia e ricostruzione di un forte settore pubblico dell'economia.
5. Si può osservare che nulla di tutto questo è contenuto nella manovra governativa. Ed è abbastanza logico che non possa concepire un ampliamento del ruolo dello Stato nell'economia un governo a guida Berlusconi-Tremonti (a dispetto del colbertismo verbale di quest'ultimo). Ma va notato che praticamente su ognuno di questi punti la manovra contiene dei passi indietro: prosegue l'attacco al pubblico impiego anche nel settore fondamentale della formazione, il sistema agevolativo pubblico e' imbalsamato nella sua inefficienza, e al settore pubblico vengono tolte ulteriori leve con la privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali.
IL RISULTATO: UNA RICETTA PER IL DECLINO
1. L'unica vera cura per il debito (sia esso pubblico o privato) è la crescita economica. Da questo punto di vista, politiche di austerita' che comprimano una o più componenti del salario (diretto, indiretto o differito) avranno un effetto depressivo sulla domanda interna e quindi anche sulla crescita. Questo avrà un duplice effetto negativo sul rapporto debito/pil: da un lato, siccome il denominatore (il pil) diminuirà, quel rapporto peggiorerà, a meno che il numeratore (il debito) non scenda ancora di più (cosa impossibile); dall'altro, i vantaggi delle stesse politiche di austerità dal punto di vista della riduzione del deficit annuale (e quindi dell'accumulo di stock di debito) saranno vanificati per il semplice fatto che la diminuzione del pil ridurrà le entrate fiscali ordinarie.
2. L'Italia è un Paese che soffre da anni di una crescita insufficiente e di seri problemi di competitività derivanti, da un lato, da investimenti in infrastrutture e in formazione e ricerca molto inferiori a quelli dei principali competitori, dall'altro, da una dimensione d'impresa inadeguata a reggere il confronto internazionale (in termini di economie di scala, organizzazione del lavoro, capacita' d'investimento in innovazione). Se gli investimenti pubblici diminuiscono e se la dimensione d'impresa resta quella attuale, il risultato sarà ovviamente un'ulteriore perdita di competitività sui mercati internazionali e quindi di quote sull'export internazionale.
3. La manovra da un lato deprime i consumi e quindi la domanda interna, dall'altro non programma alcun investimento pubblico e non colpisce uno dei motivi fondamentali del nanismo dell'impresa italiana, ossia il ricorso all'evasione fiscale.
4. Il risultato è obbligato: calo del pil dovuto alla debolezza della domanda interna e contemporaneamente alla perdita di ulteriori quote del commercio internazionale, che aggraverà un deficit della bilancia commerciale già pesante. E quindi insostenibilità del debito pubblico nel medio-lungo periodo. È possibile che gli operatori sul mercato dei titoli di Stato questi conti se li facciano e votino contro la manovra vendendo Btp. È anche possibile che invece condividano i dogmi della Bce o addirittura abbraccino le teorie dell'"austerità espansiva" (che pochi mesi fa e' stata confutata da una ricerca dello stesso Fondo Monetario Internazionale) e quindi non continuino a vendere Btp. In questo secondo caso la situazione del nostro debito non peggiorerà subito, ma soltanto nel medio-lungo periodo. Non è una grande consolazione. Ma con questa manovra è la cosa migliore che ci possa capitare.
CONCLUSIONE
1. La manovra Berlusconi-Tremonti non è soltanto iniqua: è devastante tanto per i bilanci di milioni di famiglie, quanto per le sorti della nostra economia e per la stessa sostenibilità del nostro debito pubblico. Con essa il declino economico del nostro Paese, che in questi anni è andato di pari passo con una crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito, rischia di diventare irreversibile.
2. È comprensibile che questo non risulti chiaro a un ceto imprenditoriale e a un ceto politico, italiano ed europeo, che non riescono a concepire alcun recupero di competitività che non passi per la strada esclusiva della riduzione del salario e del potere contrattuale dei lavoratori; e che non vede strada diversa, per la riduzione del debito accumulato dalle economie europee (tutte, in misura maggiore o minore), dal fatto che tale debito sia pagato dai lavoratori. Questo è anche il senso profondo della delirante proposta, rilanciata dalla strana coppia Merkel-Sarkozy, di inserire in tutte le costituzioni del pareggio di bilancio.
3. Ma proprio su questo si misura l'assoluta inadeguatezza della classe dominante europea e del ceto politico che la rappresenta. Per colmo d'ironia, la proposta di costituzionalizzare il pareggio di bilancio è stata ribadita nello stesso giorno in cui i dati ufficiali dell'economia tedesca hanno evidenziato che nel secondo trimestre di quest'anno la Germania non e' cresciuta: ossia nel preciso momento in cui è emerso con chiarezza che il destino economico della Germania (le cui esportazioni sono per il 63,5% dirette ad altri Paesi dell'Unione Europea) è legato a doppio filo alle sorti dei Paesi che le politiche europee stanno costringendo a politiche deflative e di violenta compressione dei consumi.
4. Lo scenario che si prospetta se, come sembra, si procederà nella direzione scellerata intrapresa da oltre un anno, è quindi il seguente: a) politiche depressive antidebito che in realtà massacrano le economie interessate e per questa via conducono all'insolvenza dei relativi debiti sovrani; b) fallimenti bancari a catena a causa del forte deprezzamento/svalutazione dei titoli di Stato in portafoglio; c) prosecuzione dell'effetto domino delle crisi del debito, con la Francia come prossima tessera a cadere; d) crisi finanziaria e industriale anche in Germania a causa del crollo del valore dei titoli di Stato posseduti dalle banche tedesche da una parte, e a causa del crollo dell'export infraeuropeo dall'altra; e) fine dell'euro a causa della divergenza non più sanabile tra le economie dell'eurozona, nel contesto di una depressione generalizzata.
5. È importante notare che il processo di compressione dei redditi da lavoro e contemporanea distruzione del welfare non si sta verificando solo in Europa. Con riferimento alla situazione degli Stati Uniti, Nouriel Roubini, intervistato il 12 agosto scorso dal Wall Street Journal, ha osservato: "Negli ultimi due o tre anni, in effetti abbiamo avuto un peggioramento della situazione a causa di una massiccia redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale, dai salari ai profitti, di un'accresciuta disuguaglianza. Il punto è che le famiglie hanno maggiore propensione a spendere delle imprese... E quindi questa redistribuzione del reddito e della ricchezza ha ulteriormente aggravato il problema dell'insufficienza della domanda aggregata". Roubini da ciò ha tratto una conclusione tanto più significativa trattandosi di un economista non marxista: "Karl Marx aveva ragione. A un certo punto, il capitalismo può autodistruggersi. Non si può trasferire all'infinito reddito dal lavoro al capitale senza avere come risultato capacità produttiva in eccesso e carenza di domanda aggregata. Ma è successo proprio questo. Pensavamo che i mercati funzionassero. Non stanno funzionando."
6. La conclusione che si può trarre da tutto questo è duplice. A) Le strategie anticrisi che si vanno attuando in tutto l'Occidente capitalistico per risolvere la crisi peggiore dopo il 1929 non fanno che aggravarla. B) Per quanto riguarda più in particolare la manovra Berlusconi-Tremonti avallata dall'establishment dell'Unione Europea, opporsi ad essa è oggi l'unico modo per difendere non soltanto gli interessi di chi lavora, ma anche le prospettive dell'economia italiana. L'alternativa è un declino irreversibile e in prospettiva anche la fine della nostra unità nazionale, stritolata dalla guerra tra poveri per accaparrarsi le ultime briciole del welfare. Ricordiamocene, quando verranno a chiederci di accettare questa manovra indecente, iniqua e devastante in nome di "superiori interessi nazionali".
(17 agosto 2011)
Per quello che contiene e per quello che non contiene.
Ecco quello che contiene:
ATTACCO AL SALARIO E AI DIRITTI DEL LAVORO
La manovra contiene innanzitutto un attacco al salario e ai diritti del lavoro dipendente di portata inedita, che si può sintetizzare come segue:
Attacco al salario
1. Tagli al salario diretto dei dipendenti pubblici. I dipendenti delle amministrazioni pubbliche che non rispettano gli obiettivi di riduzione della spesa perderanno il pagamento della tredicesima mensilità.
2. Tagli al salario indiretto di tutti i lavoratori. Questo e' il risultato inevitabile della riduzione di 6 miliardi di trasferimenti dallo Stato agli Enti Locali per il 2012 e per 3,5 miliardi nel 2013, come pure dell'incentivo alla privatizzazione dei servizi pubblici locali (a questo riguardo si usa a sproposito il termine di "liberalizzazione", ma si tratta di una mistificazione in quanto la gran parte di questi servizi sono monopoli naturali). Lo stesso effetto avranno, almeno in parte, i tagli ai Ministeri per 6 miliardi nel 2012 e per 3,5 miliardi nel 2013. E anche la soppressione delle province sotto i 300.000 abitanti e la fusione dei comuni sotto i 1000 abitanti. E' infatti certo che queste misure si tradurranno in minori servizi o servizi più cari per i cittadini. Oltretutto va ricordato che i lavoratori e i pensionati sono già stati colpiti a luglio dai tagli sulle deduzioni fiscali , sulle indennità assistenziali, sugli asili e su altri servizi che in particolare i Comuni dovranno ridurre.
3. Tagli al salario differito dei lavoratori. Per i lavoratori pubblici questo avverrà tramite il pagamento con due anni di ritardo (e senza interessi) dell'indennità di buonuscita. Per tutti i lavoratori questo e' il risultato dei previsti interventi disincentivanti per le pensioni di anzianità (con anticipo al 2012 del requisito di 97 anni tra eta' anagrafica e anni di contribuzione). Infine, un segnale di attenzione specifico nei confronti delle donne: viene anticipato dal 2020 al 2015 l'inizio del progressivo innalzamento a 65 anni dell'età pensionabile per le donne del settore privato.
Attacco ai diritti del lavoro
1. La manovra consente di derogare a livello aziendale a quanto previsto dai contratti nazionali su "mansioni, classificazione e inquadramento del personale, disciplina dell'orario di lavoro, modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro" (cose in buona parte già previste dall'infelicissimo accordo firmato anche dalla CGIL il 28 giugno scorso), ma anche sul "recesso dal rapporto di lavoro", ossia sui licenziamenti, con la sola eccezione - bontà loro - del "licenziamento discriminatorio" e del "licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio". Nelle intenzioni del governo, si potrà così aggirare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori ed effettuare licenziamenti anche non per giusta causa.
2. C'e inoltre (art. 8, par. 3 del decreto legge della manovra) anche un avallo postumo ai colpi di mano della Fiat su Pomigliano e Mirafiori che sinora – va detto – non hanno granché giovato alle sorti della ex casa automobilistica italiana, con vendite e quotazioni azionarie in caduta libera (evidentemente le bastonate ai lavoratori non sono un colpo di bacchetta magica che risolve i problemi aziendali).
3. Infine, per quanto riguarda il pubblico impiego, viene introdotta la libertà di trasferimento del personale anche in altra città, e l'assegnazione a mansioni superiori e di maggiore responsabilità a parità di stipendio.
ATTACCO ALLA DEMOCRAZIA
1. La manovra forza la privatizzazione dei servizi pubblici locali. Questo rappresenta una evidente violazione della volontà popolare, che si e' espressa di recente con assoluta chiarezza nei due referendum sull'acqua. Anche questo e' gravissimo.
2. Il continuo richiamo degli esponenti del governo alla "lettera della Bce" – inviata al governo in occasione del tracollo dei titoli di Stato ad inizio agosto e contenente le misure urgenti da adottare, probabilmente in qualche caso strumentale e finalizzato a scaricare su qualcun altro le colpe delle parti più inaccettabili della manovra – pone l'accento su due inquietanti novità dell'attuale situazione: a) la perdita della sovranità nazionale su scelte politiche di fondamentale importanza, per di più a favore di organismi non eletti ma nominati (come appunto è la Bce; ma il discorso non sarebbe sostanzialmente differente per la Commissione Europea); b) il ritorno agli arcana imperii della diplomazia segreta: infatti dei contenuti di questa lettera né il Parlamento italiano né l'opinione pubblica sa assolutamente nulla, oltre al fatto che esiste. Se consideriamo che gli organismi dell'Unione Europea perdono molto del loro tempo a dare lezioni di democrazia al resto del mondo, davvero non c'è male. Ma al di là di questo aspetto – diciamo così – di stile e di coerenza, è importante rilevare qualcosa di ben più importante: il tentativo dell'establishment europeo di sottrarre al libero dibattito e alla pubblica discussione le scelte di politica economica cruciali rispetto alla crisi in atto. Tra ukase segreti e presunti "percorsi obbligati per il risanamento dei conti pubblici", i provvedimenti economici dei governi acquisiscono un'aura di obbligatorietà e di inevitabilità: escono dalla sfera delle scelte politiche e divengono presunte necessità dettate da tecnocrazie infallibili e super partes. Si tratta di una mistificazione che va combattuta con la massima energia: non ci sono misure necessarie. E la stessa riduzione del debito via austerità è una scelta politica e di classe che va contrastata con forza. Nel caso italiano, come vedremo più avanti, essa è non soltanto iniqua ma dannosa per le stesse sorti della nostra economia.
ATTACCO AI SIMBOLI DEL LAVORO E DELL'ITALIA ANTIFASCISTA E REPUBBLICANA
L'abolizione delle festività laiche (25 aprile, 1 maggio e 2 giugno) non ha alcun significativo effetto sull'aumento della produzione e del prodotto interno lordo. Ha invece un significato simbolico da non sottovalutare: è la cancellazione di date simbolo – e con ciò un attacco ai valori fondanti – dell'Italia repubblicana e antifascista. Non stupisce che una forza politica secessionista e antinazionale come la Lega e un Pdl che sempre più chiaramente si pone come forza politica di riferimento della peggiore feccia fascista di questo Paese tentino questo affondo. La cui giustificazione "europea" è in questo caso particolarmente falsa e pretestuosa (si provi anche soltanto ad immaginare l'eliminazione del 14 luglio in Francia). Del resto, non si può che apprezzare la coerenza della manovra sul punto: è perfettamente conseguente, dopo aver colpito il lavoro e la democrazia, calpestarne le date simbolo.
Dopo aver visto quello che la manovra contiene, passiamo ad esaminare quello che non contiene:
NIENTE CONTRO L'EVASIONE FISCALE
1. In una manovra da 50 miliardi di euro, e in presenza di un'evasione fiscale che annualmente sottrae gettito per 120 miliardi di euro, le maggiori entrate previste in relazione alla lotta all'evasione ammontano a meno di 1 miliardo di euro.
2. Anche questa ridicola cifra è in realtà presunta, perché nessuna delle misure contenute in manovra appare in grado di incrementare significativamente il contrasto all'evasione (la stessa tracciabilita' delle transazioni superiori ai 2.500 euro è molto meno efficace della soglia introdotta dal governo Prodi II e soppressa come primo atto di questo governo). La verità è che nel caso della lotta all'evasione è evidente l'intento del governo di non colpire la propria base sociale: quella piccola e media borghesia parassitaria che costituisce ormai da decenni la vera palla al piede dello sviluppo economico italiano.
NESSUNA TASSAZIONE DEI GRANDI PATRIMONI
1. La manovra non prevede alcuna tassazione dei grandi patrimoni.
2. Lo stesso prelievo di solidarietà del 5% oltre i 90.000 euro di reddito e del 10% oltre i 150.000 euro, oltre ad essere edulcorato in vari modi (deducibilita' fiscale parziale, pagamento solo sino al raggiungimento del tetto massimo di aliquota del 48%), non può essere considerato una vera e propria patrimoniale, e si rivolge ad una platea molto ristretta di contribuenti: essenzialmente lavoratori dipendenti ad alto reddito.
3. Come se non bastasse, su questa tassazione, e solo su questa, una parte del Pdl, su probabile istigazione dello stesso Berlusconi, sta inscenando delle barricate che serviranno ad abbandonare questa misura, magari in cambio di un aumento delle tasse indirette (che per loro natura non sono progressive).
NESSUNA MISURA PER LA CRESCITA
1. La manovra non contiene nessuna misura né per la crescita economica né per l'incremento della produttività totale dei fattori che è il vero nodo di fondo della perdita di produttività che contraddistingue il nostro Paese da oltre un decennio. Ecco le misure essenziali per la crescita che nella manovra non ci sono:
2. Investimenti in: a) formazione di base e universitaria (questo governo li ha drasticamente ridotti); b) ricerca e sviluppo tecnologico (idem come sopra); c) infrastrutture utili (a questo governo interessano solo quelle inutili, come ponte sullo Stretto e Tav in Piemonte, mentre tutti gli altri investimenti infrastrutturali sono bloccati);
3. Riordino delle agevolazioni pubbliche alle imprese, che oggi costano decine di miliardi e sono fonte di infiniti sprechi e ruberie. Le agevolazioni oggi in essere andrebbero drasticamente ridotte, a favore di incentivi che favoriscano la concentrazione industriale (il nanocapitalismo italico, favorito dall'evasione fiscale, è diventato uno dei vincoli più gravi allo sviluppo) e gli investimenti in ricerca e innovazione da parte delle imprese private italiane (che da questo punto di vista sono il fanalino di coda in Europa).
4. Restituzione allo Stato di compiti di orientamento dell'economia e ricostruzione di un forte settore pubblico dell'economia.
5. Si può osservare che nulla di tutto questo è contenuto nella manovra governativa. Ed è abbastanza logico che non possa concepire un ampliamento del ruolo dello Stato nell'economia un governo a guida Berlusconi-Tremonti (a dispetto del colbertismo verbale di quest'ultimo). Ma va notato che praticamente su ognuno di questi punti la manovra contiene dei passi indietro: prosegue l'attacco al pubblico impiego anche nel settore fondamentale della formazione, il sistema agevolativo pubblico e' imbalsamato nella sua inefficienza, e al settore pubblico vengono tolte ulteriori leve con la privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali.
IL RISULTATO: UNA RICETTA PER IL DECLINO
1. L'unica vera cura per il debito (sia esso pubblico o privato) è la crescita economica. Da questo punto di vista, politiche di austerita' che comprimano una o più componenti del salario (diretto, indiretto o differito) avranno un effetto depressivo sulla domanda interna e quindi anche sulla crescita. Questo avrà un duplice effetto negativo sul rapporto debito/pil: da un lato, siccome il denominatore (il pil) diminuirà, quel rapporto peggiorerà, a meno che il numeratore (il debito) non scenda ancora di più (cosa impossibile); dall'altro, i vantaggi delle stesse politiche di austerità dal punto di vista della riduzione del deficit annuale (e quindi dell'accumulo di stock di debito) saranno vanificati per il semplice fatto che la diminuzione del pil ridurrà le entrate fiscali ordinarie.
2. L'Italia è un Paese che soffre da anni di una crescita insufficiente e di seri problemi di competitività derivanti, da un lato, da investimenti in infrastrutture e in formazione e ricerca molto inferiori a quelli dei principali competitori, dall'altro, da una dimensione d'impresa inadeguata a reggere il confronto internazionale (in termini di economie di scala, organizzazione del lavoro, capacita' d'investimento in innovazione). Se gli investimenti pubblici diminuiscono e se la dimensione d'impresa resta quella attuale, il risultato sarà ovviamente un'ulteriore perdita di competitività sui mercati internazionali e quindi di quote sull'export internazionale.
3. La manovra da un lato deprime i consumi e quindi la domanda interna, dall'altro non programma alcun investimento pubblico e non colpisce uno dei motivi fondamentali del nanismo dell'impresa italiana, ossia il ricorso all'evasione fiscale.
4. Il risultato è obbligato: calo del pil dovuto alla debolezza della domanda interna e contemporaneamente alla perdita di ulteriori quote del commercio internazionale, che aggraverà un deficit della bilancia commerciale già pesante. E quindi insostenibilità del debito pubblico nel medio-lungo periodo. È possibile che gli operatori sul mercato dei titoli di Stato questi conti se li facciano e votino contro la manovra vendendo Btp. È anche possibile che invece condividano i dogmi della Bce o addirittura abbraccino le teorie dell'"austerità espansiva" (che pochi mesi fa e' stata confutata da una ricerca dello stesso Fondo Monetario Internazionale) e quindi non continuino a vendere Btp. In questo secondo caso la situazione del nostro debito non peggiorerà subito, ma soltanto nel medio-lungo periodo. Non è una grande consolazione. Ma con questa manovra è la cosa migliore che ci possa capitare.
CONCLUSIONE
1. La manovra Berlusconi-Tremonti non è soltanto iniqua: è devastante tanto per i bilanci di milioni di famiglie, quanto per le sorti della nostra economia e per la stessa sostenibilità del nostro debito pubblico. Con essa il declino economico del nostro Paese, che in questi anni è andato di pari passo con una crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito, rischia di diventare irreversibile.
2. È comprensibile che questo non risulti chiaro a un ceto imprenditoriale e a un ceto politico, italiano ed europeo, che non riescono a concepire alcun recupero di competitività che non passi per la strada esclusiva della riduzione del salario e del potere contrattuale dei lavoratori; e che non vede strada diversa, per la riduzione del debito accumulato dalle economie europee (tutte, in misura maggiore o minore), dal fatto che tale debito sia pagato dai lavoratori. Questo è anche il senso profondo della delirante proposta, rilanciata dalla strana coppia Merkel-Sarkozy, di inserire in tutte le costituzioni del pareggio di bilancio.
3. Ma proprio su questo si misura l'assoluta inadeguatezza della classe dominante europea e del ceto politico che la rappresenta. Per colmo d'ironia, la proposta di costituzionalizzare il pareggio di bilancio è stata ribadita nello stesso giorno in cui i dati ufficiali dell'economia tedesca hanno evidenziato che nel secondo trimestre di quest'anno la Germania non e' cresciuta: ossia nel preciso momento in cui è emerso con chiarezza che il destino economico della Germania (le cui esportazioni sono per il 63,5% dirette ad altri Paesi dell'Unione Europea) è legato a doppio filo alle sorti dei Paesi che le politiche europee stanno costringendo a politiche deflative e di violenta compressione dei consumi.
4. Lo scenario che si prospetta se, come sembra, si procederà nella direzione scellerata intrapresa da oltre un anno, è quindi il seguente: a) politiche depressive antidebito che in realtà massacrano le economie interessate e per questa via conducono all'insolvenza dei relativi debiti sovrani; b) fallimenti bancari a catena a causa del forte deprezzamento/svalutazione dei titoli di Stato in portafoglio; c) prosecuzione dell'effetto domino delle crisi del debito, con la Francia come prossima tessera a cadere; d) crisi finanziaria e industriale anche in Germania a causa del crollo del valore dei titoli di Stato posseduti dalle banche tedesche da una parte, e a causa del crollo dell'export infraeuropeo dall'altra; e) fine dell'euro a causa della divergenza non più sanabile tra le economie dell'eurozona, nel contesto di una depressione generalizzata.
5. È importante notare che il processo di compressione dei redditi da lavoro e contemporanea distruzione del welfare non si sta verificando solo in Europa. Con riferimento alla situazione degli Stati Uniti, Nouriel Roubini, intervistato il 12 agosto scorso dal Wall Street Journal, ha osservato: "Negli ultimi due o tre anni, in effetti abbiamo avuto un peggioramento della situazione a causa di una massiccia redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale, dai salari ai profitti, di un'accresciuta disuguaglianza. Il punto è che le famiglie hanno maggiore propensione a spendere delle imprese... E quindi questa redistribuzione del reddito e della ricchezza ha ulteriormente aggravato il problema dell'insufficienza della domanda aggregata". Roubini da ciò ha tratto una conclusione tanto più significativa trattandosi di un economista non marxista: "Karl Marx aveva ragione. A un certo punto, il capitalismo può autodistruggersi. Non si può trasferire all'infinito reddito dal lavoro al capitale senza avere come risultato capacità produttiva in eccesso e carenza di domanda aggregata. Ma è successo proprio questo. Pensavamo che i mercati funzionassero. Non stanno funzionando."
6. La conclusione che si può trarre da tutto questo è duplice. A) Le strategie anticrisi che si vanno attuando in tutto l'Occidente capitalistico per risolvere la crisi peggiore dopo il 1929 non fanno che aggravarla. B) Per quanto riguarda più in particolare la manovra Berlusconi-Tremonti avallata dall'establishment dell'Unione Europea, opporsi ad essa è oggi l'unico modo per difendere non soltanto gli interessi di chi lavora, ma anche le prospettive dell'economia italiana. L'alternativa è un declino irreversibile e in prospettiva anche la fine della nostra unità nazionale, stritolata dalla guerra tra poveri per accaparrarsi le ultime briciole del welfare. Ricordiamocene, quando verranno a chiederci di accettare questa manovra indecente, iniqua e devastante in nome di "superiori interessi nazionali".
(17 agosto 2011)
28 luglio 2011
Di cosa abbiamo bisogno?
La felicità è ormai assimilata al consumo. Mai nel
corso della storia è stata prodotta tanta ricchezza,
ma l’80% delle risorse del pianeta vengono consumate
dal 20% della popolazione. L’economia vuole
che facciamo del consumo il nostro stile di vita,
bisogna consumare sempre di più, siamo la civiltà
dell’«usa-e-getta». Gli specialisti del marketing
si sforzano di venderci sempre più oggetti inutili,
di far credere ai consumatori che l’accumulazione
materiale è un fine in sé. Tutto quanto favorisce la
crescita è buono: anche la guerra favorisce la crescita,
dunque la guerra è una buona cosa!
Lo sviluppo sostenibile cerca di conciliare la crescita
economica e il rispetto dell'ambiente, quando
nei fatti la crescita economica è uno dei principali
fattori di distruzione del nostro ambiente. Il termine
di «sviluppo sostenibile» è una semplice azione di
recupero di industriali e di ecologisti benpensanti
per fare del «green business». Meglio imparare a
convivere con il nostro ambiente, che distruggerlo.
Occorre lottare per una società in cui i rapporti
umani siano superiori ai rapporti mercantili!
Bisogna riflettere sul ruolo di ognuno nella società.
La decrescita è un insieme di idee anti-produttivistiche,
anti-consumistiche ed ecologiche. È anche
l’idea di produrre ciò che è veramente utile, e tralasciare
le attività socialmente inutili. Occorre sviluppare
le attività socialmente vitali (acqua, energia,
salute, educazione, trasporti...) nel quadro di un
servizio pubblico universale. Occorre lasciare che i
paesi del sud del mondo sviluppino le coltivazioni
di prodotti alimentari locali a scapito delle coltivazioni
di esportazione. Occorre ridurre i trasporti di
merci relocalizzando le industrie. Occorre un’agricoltura
di prossimità, senza OGM, senza pesticidi e
rispettosa della natura. La cultura e lo sport devono
essere fonti di espansione e non di arricchimento.
La decrescita propone anche di diminuire l'impronta
ecologica delle nostre società. Una società
che consuma sempre di più non può rispettare l’ambiente
e esaurisce presto o tardi le risorse essenziali
per la vita. Non può esserci crescita infinita su un
pianeta finito. Non si tratta di vivere nelle privazioni
o nella frustrazione. Vivere semplicemente
significa non soccombere alle tentazioni inutili e
resistere al diktat delle mode. Significa vivere con
meno, significa essere responsabili. Ma significa
anche comprendere che la nostra bulimia degli
acquisti è il riflesso di un malessere, di una insoddisfazione,
generati appunto da questa società detta
dell’abbondanza. Possedendo più beni materiali,
siamo forse più felici? Al termine della vita, la vera
ricchezza è il vuoto che si lascia e non i beni che si
tramandano!
Occorre far decrescere tutte le attività inutili che il
capitalismo, trascinato dalla sua logica del profitto,
è riuscito a imporre come unico modello. Lo scopo
finale non è di creare delle ricchezze o degli impieghi,
è semplicemente di soddisfare i bisogni della
popolazione, a scapito di una minoranza di ultraricchi,
che per una volta dovrà piegarsi all’interesse
generale. La crescita, dogma del sistema capitalista,
ci trascina verso una crisi ecologica maggiore e la
sola soluzione a questa crisi è rompere con il capitalismo.
Ogni altra soluzione alternativa per gestire
il sistema è solo polvere negli occhi.
di Coscienza Cittadina Responsabile
(http://2ccr.unblog.fr - Traduzione dal francese di barb@nar - voce libertaria)
corso della storia è stata prodotta tanta ricchezza,
ma l’80% delle risorse del pianeta vengono consumate
dal 20% della popolazione. L’economia vuole
che facciamo del consumo il nostro stile di vita,
bisogna consumare sempre di più, siamo la civiltà
dell’«usa-e-getta». Gli specialisti del marketing
si sforzano di venderci sempre più oggetti inutili,
di far credere ai consumatori che l’accumulazione
materiale è un fine in sé. Tutto quanto favorisce la
crescita è buono: anche la guerra favorisce la crescita,
dunque la guerra è una buona cosa!
Lo sviluppo sostenibile cerca di conciliare la crescita
economica e il rispetto dell'ambiente, quando
nei fatti la crescita economica è uno dei principali
fattori di distruzione del nostro ambiente. Il termine
di «sviluppo sostenibile» è una semplice azione di
recupero di industriali e di ecologisti benpensanti
per fare del «green business». Meglio imparare a
convivere con il nostro ambiente, che distruggerlo.
Occorre lottare per una società in cui i rapporti
umani siano superiori ai rapporti mercantili!
Bisogna riflettere sul ruolo di ognuno nella società.
La decrescita è un insieme di idee anti-produttivistiche,
anti-consumistiche ed ecologiche. È anche
l’idea di produrre ciò che è veramente utile, e tralasciare
le attività socialmente inutili. Occorre sviluppare
le attività socialmente vitali (acqua, energia,
salute, educazione, trasporti...) nel quadro di un
servizio pubblico universale. Occorre lasciare che i
paesi del sud del mondo sviluppino le coltivazioni
di prodotti alimentari locali a scapito delle coltivazioni
di esportazione. Occorre ridurre i trasporti di
merci relocalizzando le industrie. Occorre un’agricoltura
di prossimità, senza OGM, senza pesticidi e
rispettosa della natura. La cultura e lo sport devono
essere fonti di espansione e non di arricchimento.
La decrescita propone anche di diminuire l'impronta
ecologica delle nostre società. Una società
che consuma sempre di più non può rispettare l’ambiente
e esaurisce presto o tardi le risorse essenziali
per la vita. Non può esserci crescita infinita su un
pianeta finito. Non si tratta di vivere nelle privazioni
o nella frustrazione. Vivere semplicemente
significa non soccombere alle tentazioni inutili e
resistere al diktat delle mode. Significa vivere con
meno, significa essere responsabili. Ma significa
anche comprendere che la nostra bulimia degli
acquisti è il riflesso di un malessere, di una insoddisfazione,
generati appunto da questa società detta
dell’abbondanza. Possedendo più beni materiali,
siamo forse più felici? Al termine della vita, la vera
ricchezza è il vuoto che si lascia e non i beni che si
tramandano!
Occorre far decrescere tutte le attività inutili che il
capitalismo, trascinato dalla sua logica del profitto,
è riuscito a imporre come unico modello. Lo scopo
finale non è di creare delle ricchezze o degli impieghi,
è semplicemente di soddisfare i bisogni della
popolazione, a scapito di una minoranza di ultraricchi,
che per una volta dovrà piegarsi all’interesse
generale. La crescita, dogma del sistema capitalista,
ci trascina verso una crisi ecologica maggiore e la
sola soluzione a questa crisi è rompere con il capitalismo.
Ogni altra soluzione alternativa per gestire
il sistema è solo polvere negli occhi.
di Coscienza Cittadina Responsabile
(http://2ccr.unblog.fr - Traduzione dal francese di barb@nar - voce libertaria)
14 luglio 2011
07 luglio 2011
La doppia impostura della «ripresa»
di SERGE LATOUCHE
Introduzione
Che cosa è la «ripresa»? E’ in sostanza quel che è stato proposto al vertice (G8 / G20) di Toronto, un programma che contiene allo stesso tempo sia la ripresa che l’austerità. La cancelliera tedesca Angela Merkel chiedeva una politica vigorosa di rigore e di austerità. Il presidente degli Usa Barak Obama, temendo di colpire la timida ripresa dell’economia mondiale e di quella statunitense con una politica deflazionista, chiedeva un rilancio ragionevole. L’accordo finale è stato raggiunto su una sintesi zoppicante: la ripresa controllata nel rigore e l’austerità moderata dal rilancio. Il ministro dell’economia francese Christine Lagarde, che non era ancora presidente del Fondo monetario internazionale, ha allora azzardato il neologismo «rilance» (contrazione di «rigueur e «rilance»). Con ciò sincronizzando il passo con il consigliere del presidente Sarkozy, Alain Minc, che, interrogato su quel che bisognava fare nella situazione critica provocata dalla destabilizzazione degli Stati da parte di mercati finanziari che i medesimi Stati avevano appena salvato dalla rovina, si è prodotto in questa ammirevole formula: bisogna schiacciare allo stesso tempo il freno e l’acceleratore.
In ogni modo, denunciare la doppia impostura di questo programma costituisce per me una tripla sfida.
Prima di tutto, si tratta parlare in questo luogo, nell’ambito del parlamento europeo a Bruxelles – tempio della religione della crescita – a partire da una posizione iconoclasta, la decrescita, per di più a proposito di una materia di cui non sono uno specialista, la Grecia e la crisi del debito sovrano.
Poi, si tratta di parlare in questo luogo – tempio della politica – a partire da una posizione da «scienziato» e dunque, per riprendere la distinzione e l’analisi di Weber, secondo l’etica della convinzione e non quella della responsabilità.
Infine, si tratta di sostenere un punto di vista paradossale: né rigore, né ripresa.
Rifiutare il rigore o l’austerità è una posizione sulla quale posso almeno trovare degli alleati (benché molto minoritari) sia tra gli economisti, ad esempio Fréderic Lordon, che tra i politici, come J-L Mélanchon secondo il suo attuale programma.
Rifiutare la ripresa della crescita produttivista e uscire dalla religione della crescita è una posizione ammessa da alcuni ecologisti sul lungo termine, ma del tutto esclusa nel breve termine.
E’ dunque a questa tripla sfida che cercherò di rispondere, a cominciare dai due rifiuti: quello del rigore e quello della ripresa.
Rifiutare l’austerità
La crisi greca si inscrive nel contesto più largo di una crisi dell’euro e di una crisi dell’Europa. E naturalmente di una crisi di civilizzazione della società del consumo, vale a dire una crisi che unisce una crisi finanziaria, una crisi economica, una crisi sociale, una crisi culturale e una crisi ecologica. La mia convinzione profonda è che, risolvendo la crisi dell’Europa e dell’euro, se non la crisi della civilizzazione dei consumi, si risolverà la crisi greca, ma che, tenendo la Grecia sotto trasfusione a colpi di prestiti condizionati a iniezioni sempre più massicce di austerità, non si salverà né la Grecia, né l’Europa, e si getteranno i popoli nella disperazione.
Rifiutare l’austerità presuppone prima di tutto cancellare due tabù che sono alla base della costruzione europea: l’inflazione e il protezionismo.
Il progetto della decrescita, ossia la costruzione una società dell’abbondanza frugale o della prosperità senza crescita, implica due fenomeni che hanno potuto essere gli oggetti di politiche sistematiche, nel passato: il protezionismo e l’inflazione. Le politiche tariffarie sistematiche di costruzione e ricostruzione dell’apparato produttivo, di difesa delle attività nazionali e di protezione sociale, e quelle di finanziamento del deficit di bilancio con un ricorso ragionevole all’emissione di moneta che provocasse una «gentle rise of price level» (una inflazione moderata) preconizzata da Keynes, hanno accompagnato l’eccezionale crescita delle economie occidentali nel dopoguerra, gli anni che in Francia sono stati chiamati «i trenta gloriosi». a dire il vero il solo periodo nella storia moderna in cui le classi lavoratrici hanno goduto di un relativo benessere.
Questi due strumenti sono stati banditi dalla controrivoluzione neoliberista, e le politiche che li vorrebbero prevedere sono oggi colpite da anatema, anche se tutti i governi che possono vi hanno fatto ricorso in maniera più o meno surrettizia e insidiosa.
Come tutti gli strumenti, il protezionismo e l’inflazione possono avere degli effetti negativi e perversi – e sono quelli che soprattutto si osservano oggi nel loro utilizzo nascosto (1) – ma è indispensabile farvi ricorso in modo intelligente per risolvere in modo soddisfacente, da un punto di vista sociale, le crisi attuali, ed evitare la catastrofe di una austerità deflattiva, ma anche il disastro certo di una ripresa produttivista.
Per questo oggi bisogna probabilmente uscire dall’euro, non potendo correggerlo. Bisogna riappropriarsi della moneta, che deve ritrovare il suo ruolo: servire e non asservire. Il denaro può essere un buon servitore, ma è sempre un cattivo padrone.
Notiamo per altro che la ripresa della signora Lagarde non è il rilancio produttivista di Joseph Stiglitz: è essenzialmente il rilancio dell’economia del casinò, quella della speculazione di borsa e immobiliare.
In effetti, per i governi in carica, lo slogan «sia ripresa sia austerità» significa la ripresa per il capitale e l’austerità per le popolazioni. In nome della ripresa, per altro largamente illusoria, degli investimenti e quella totalmente fallace dell’occupazione, vengono abbassati o soppressi gli oneri sociali, le imposte sulle professioni e l’imposta sugli utili delle imprese. Si rinuncia ad ogni imposizione sui super-profitti bancari e finanziari, mentre l’austerità colpisce duramente i salariati e i ceti medi e inferiori con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione (che significa concretamente la diminuzione del suo ammontare). Per completare il tutto, e preparare la mitica ripresa, si smantellano sempre più i servizi pubblici e si privatizza a tutta velocità ciò che ancora non è stato privatizzato, con una soppressione massiccia di posti di lavoro (nell’istruzione, nella sanità, ecc.).
Assistiamo a una strana corsa masochista all’austerità. Il Paese A annuncia una diminuzione dei salari del 20 per cento, allo stesso tempo il paese B annuncia che farà di meglio, con una diminuzione del 30 per cento, mentre il paese C, per non essere da meno si ingegna di aggiungere misure ancora più rigorose. Annunci per di più sommati alla pubblicità onnipresente, che incita a continuare a consumare sempre di più senza averne i mezzi e a indebitarsi senza la prospettiva di poter rimborsare il debito: bisogna in qualche modo espiare la pseudo festa del consumo pur continuando a sostenerla nella parte dei debitori.
Questa politica di austerità stupida non può che provocare un ciclo deflattivo che farà precipitare la crisi, ciò che la ripresa puramente speculativa non impedirà; e gli Stati dissanguati non potranno più, questa volta, salvare le banche a colpi di miliardi di dollari.
Questa politica non è solo immorale, ma è anche assurda. Otterremo il fallimento dell’euro, se non dell’Europa, e la catastrofe sociale.
In attesa di questa eventualità, se gli obiettori della crescita fossero incaricati di gestire gli affari della Grecia, per esempio, quale sarebbe la loro politica? Il ripudio puro e semplice del debito, ossia la bancarotta dello Stato, sarebbe una medicina da cavallo che risolverebbe il problema sopprimendolo. Tuttavia, questa soluzione radicale, che non è da escludere e avrebbe facilmente il favore dei «decrescitisti», rischierebbe di gettare il paese nel caos. Il problema è che, in effetti, in pratica la crisi dell’indebitamento degli Stati non è che una parte del problema. La risposta teorica alla sola questione del debito degli Stati che, anche per i più indebitati, è dell’ordine dell’ammontare del Pil, è per altri versi più facile a farsi di quella che concerne il trovare una soluzione per la bolla mondiale dei crediti nati dalla speculazione finanziaria (2). La minaccia di un rischio sistemico è lontana dal poter essere scartata.
Per quel che riguarda il debito pubblico, il suo annullamento rischierebbe di colpire non solo le banche e gli speculatori, ma anche direttamente o indirettamente i piccoli risparmiatori che hanno dato fiducia al loro Stato o che si sono fatti rifilare dalla loro banca, a loro insaputa, degli investimenti complessi che comprendono titoli dubbi. Una riconversione negoziata (che equivarrebbe a una bancarotta parziale), come quella che si è fatta in Argentina dopo il crollo del peso, o dopo un compromesso, come propongono Eric Toussaint e una coalizione di Ong per determinare la parte abusiva del debito, è senza dubbio preferibile. Si può anche prevedere di mantenere la quotazione dei titoli per i piccoli investitori e un deprezzamento per il 40 e il 60 per cento degli altri, o ancora ricorrere a un «haircut» fiscale (3). Per onorare il debito residuo, un aumento dei prelievi fiscali grazie a una tassa eccezionale sui profitti finanziari, come fa l’Ungheria, non sarebbe una cattiva idea, oltre che l’avvio di una fiscalità progressiva con, prima di tutto, nel caso francese l’abbandono reale dello scudo fiscale e delle nicchie scandalose.
In una società della crescita senza crescita, ossia più o meno la situazione attuale, lo Stato è condannato ad imporre ai cittadini l’inferno dell’austerità, con prima di tutto la distruzione dei servizi pubblici e la privatizzazione di quel che è ancora possibile vendere dei gioielli di famiglia. Facendo questo, si corre il rischio di creare una deflazione e di entrare nel ciclo infernale di una spirale depressiva. E’ precisamente per evitare questo che bisogna adoperarsi per uscire dalla società della crescita e di costruire una società della decrescita.
Uscire dalla religione della crescita
Di fronte a questa minaccia reale ci sono buoni spiriti, come Joseph Stiglitz, che raccomandano le vecchie ricette keynesiane del rilancio del consumo e dell’investimento per far ripartire la crescita. Questa terapia non è desiderabile. Non lo è perché il pianeta non può più sopportarla, ed è forse impossibile perché, dato l’esaurimento delle risorse naturali (in senso ampio) già dagli anni settanta, i costi della crescita (quando c’è) sono superiori ai suoi benefici. I guadagni di produttività che ci si può aspettare sono nulli o quasi nulli. Bisognerebbe privatizzare ancora e mercificare le ultime riserve di vita sociale e far crescere il valore di una massa immutata – o in diminuzione – dei valori d’uso, per prolungare solo di qualche anno l’illusione della crescita.
Tuttavia, questo programma socialdemocratico, che costituisce la missione dei partiti di opposizione, non è credibile, innanzitutto perché questi partiti non sono in grado di rimettere in questione la gabbia di ferro del quadro neoliberista che essi stessi hanno contribuito a costruire nel corso degli ultimi trent’anni, e che presuppone una sottomissione senza riserve ai dogmi monetaristi. L’esempio della Grecia è in questo abbastanza eloquente.
Si tratta di uscire dall’imperativo della crescita; altrimenti detto, di rifiutare la ricerca ossessiva della crescita. Che non è evidentemente (e non deve essere) uno scopo in sé; essa non rappresenta più il mezzo per abolire la disoccupazione (4). Bisogna tentare di costruire una società dell’abbondanza frugale, o per dirla come Tim Jackson di prosperità senza crescita.
In effetti, il primo obiettivo della transizione dovrebbe essere al ricerca del pieno impiego per rimediare alla miseria di una parte della popolazione. Questo potrebbe essere fatto con una rilocalizzazione sistematica delle attività utili, una riconversione progressiva delle attività parassitarie, come la pubblicità, o nocive, come il nucleare e gli armamenti, e una riduzione programmata e significativa del tempo di lavoro. Per il resto, è il ricorso a una inflazione controllata (diciamo più o meno il 5 per cento l’anno) quel che noi ci augureremmo. Questa soluzione keynesiana, che equivale al ricorso a una moneta complementare per stimolare l’attività economica senza per questo rientrare nella logica della crescita illimitata, faciliterebbe la soluzione dei problemi provocati dall’abbandono della religione della crescita.
Certo, questo bel programma è più facile da enunciare che da realizzare. Nel caso della Grecia, presuppone come minimo di uscire dall’euro e ristabilire la dracma, probabilmente non convertibile, con quel che questo implica: controllo dei cambi e ristabilimento delle dogane. Il necessario protezionismo di questa strategia provocherebbe l’orrore degli esperti di Bruxelles e dell’Omc. Bisognerebbe dunque aspettarsi delle misure di ritorsione e dei tentativi di destabilizzazione dall’estermo collegati al sabotaggio degli interessi lesi all’interno. Questo programma sembra perciò oggi molto utopico, ma quando saremo al fondo del marasma e della vera crisi che ci aspetta al varco sembrerà realistico e desiderabile.
Conclusione
Nella tragedia greca antica la catastrofe è la scrittura della strofa finale. Qui siamo. Un popolo vota massicciamente per un partito socialista il cui programma è classicamente socialdemocratico e, sotto la pressione dei mercati finanziari, si vede imporre una politica di austerità neoliberista da parte di quello stesso partito, che obbedisce alle ingiunzioni congiunte di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale. Rifiutare democraticamente questo diktat, quel che l’Islanda ha potuto fare, è impedito alla Grecia dall’euro. E’ chiaro che il popolo greco non accetterebbe probabilmente più, nella sua maggioranza, e comunque facilmente, le conseguenze delle rotture necessarie a un’altra politica (uscita dall’euro, disconoscimento almeno parziale del debito pubblico, messa al bando probabile da parte dell’Europa e embargo da parte dei paesi «derubati», fuga dei capitali, ecc.). Ma «il sangue e le lacrime», secondo la famosa frase di Churchill, sono già qui, purtroppo senza la speranza della vittoria. Il progetto della decrescita non pretende di fare un’economia di questo sangue e di queste lacrime, ma per lo meno apre la porta alla speranza. La sola maniera di cavarsela, noi ce lo auguriamo ardentemente, sarebbe di riuscire a fare uscire l’Europa dalla dittatura dei mercati e di costruire l’Europa della solidarietà, della convivialità, quel cemento del legame sociale che Aristotele chiamava «philia».
Note
(1) Secondo la Banca mondiale le conseguenze del protezionismo agricolo del Nord equivarrebbe a un mancato guadagno di 50 miliardi di dollari all’anno per i paesi esportatori del Sud. Il deputato verde tedesco Sven Giegold ne ha fornito un altro esempio con la politica fiscale tedesca per forzare le esportazioni.
(2) Secondo la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, in effetti, nel febbraio 2008 la creazione di prodotti derivati arrivava a 600.000 miliardi di dollari, ossia tra 11 e 15 volte il prodotto lordo mondiale! E qui, a parte il crollo, anche un «decrescitista» non ha una medicina miracolosa per un atterraggio morbido…
(3) E’ quel che ha proposto Thomas Piketti in un intervento sul giornale Libération del 28 giugno. Si tratta di far pagare alle banche una parte del rimborso del debito.
(4) Secondo il calcolo di Albert Jacquard («J’accuse l’economie triomphante», Calmann Lévy 1995 / Poche 2004, p. 63), si stima che una crescita del Pil francese del 4 per cento comporterebbe la diminuzione del tasso di disoccupazione del 2 per cento. A un tale ritmo, tra cinquant’anni il Pil sarà stato moltiplicato per sette (più 600 per cento), ma il numero dei disoccupati non si ridurrebbe che del 64 per cento. Dato che la disoccupazione, tutte le categorie incluse, riguardava nel 2010 5 milioni di persone, saremmo ancora molto lontani dal pieno impiego nel 2060, perché rimarrebbero un po’ meno di due milioni di disoccupati.
Introduzione
Che cosa è la «ripresa»? E’ in sostanza quel che è stato proposto al vertice (G8 / G20) di Toronto, un programma che contiene allo stesso tempo sia la ripresa che l’austerità. La cancelliera tedesca Angela Merkel chiedeva una politica vigorosa di rigore e di austerità. Il presidente degli Usa Barak Obama, temendo di colpire la timida ripresa dell’economia mondiale e di quella statunitense con una politica deflazionista, chiedeva un rilancio ragionevole. L’accordo finale è stato raggiunto su una sintesi zoppicante: la ripresa controllata nel rigore e l’austerità moderata dal rilancio. Il ministro dell’economia francese Christine Lagarde, che non era ancora presidente del Fondo monetario internazionale, ha allora azzardato il neologismo «rilance» (contrazione di «rigueur e «rilance»). Con ciò sincronizzando il passo con il consigliere del presidente Sarkozy, Alain Minc, che, interrogato su quel che bisognava fare nella situazione critica provocata dalla destabilizzazione degli Stati da parte di mercati finanziari che i medesimi Stati avevano appena salvato dalla rovina, si è prodotto in questa ammirevole formula: bisogna schiacciare allo stesso tempo il freno e l’acceleratore.
In ogni modo, denunciare la doppia impostura di questo programma costituisce per me una tripla sfida.
Prima di tutto, si tratta parlare in questo luogo, nell’ambito del parlamento europeo a Bruxelles – tempio della religione della crescita – a partire da una posizione iconoclasta, la decrescita, per di più a proposito di una materia di cui non sono uno specialista, la Grecia e la crisi del debito sovrano.
Poi, si tratta di parlare in questo luogo – tempio della politica – a partire da una posizione da «scienziato» e dunque, per riprendere la distinzione e l’analisi di Weber, secondo l’etica della convinzione e non quella della responsabilità.
Infine, si tratta di sostenere un punto di vista paradossale: né rigore, né ripresa.
Rifiutare il rigore o l’austerità è una posizione sulla quale posso almeno trovare degli alleati (benché molto minoritari) sia tra gli economisti, ad esempio Fréderic Lordon, che tra i politici, come J-L Mélanchon secondo il suo attuale programma.
Rifiutare la ripresa della crescita produttivista e uscire dalla religione della crescita è una posizione ammessa da alcuni ecologisti sul lungo termine, ma del tutto esclusa nel breve termine.
E’ dunque a questa tripla sfida che cercherò di rispondere, a cominciare dai due rifiuti: quello del rigore e quello della ripresa.
Rifiutare l’austerità
La crisi greca si inscrive nel contesto più largo di una crisi dell’euro e di una crisi dell’Europa. E naturalmente di una crisi di civilizzazione della società del consumo, vale a dire una crisi che unisce una crisi finanziaria, una crisi economica, una crisi sociale, una crisi culturale e una crisi ecologica. La mia convinzione profonda è che, risolvendo la crisi dell’Europa e dell’euro, se non la crisi della civilizzazione dei consumi, si risolverà la crisi greca, ma che, tenendo la Grecia sotto trasfusione a colpi di prestiti condizionati a iniezioni sempre più massicce di austerità, non si salverà né la Grecia, né l’Europa, e si getteranno i popoli nella disperazione.
Rifiutare l’austerità presuppone prima di tutto cancellare due tabù che sono alla base della costruzione europea: l’inflazione e il protezionismo.
Il progetto della decrescita, ossia la costruzione una società dell’abbondanza frugale o della prosperità senza crescita, implica due fenomeni che hanno potuto essere gli oggetti di politiche sistematiche, nel passato: il protezionismo e l’inflazione. Le politiche tariffarie sistematiche di costruzione e ricostruzione dell’apparato produttivo, di difesa delle attività nazionali e di protezione sociale, e quelle di finanziamento del deficit di bilancio con un ricorso ragionevole all’emissione di moneta che provocasse una «gentle rise of price level» (una inflazione moderata) preconizzata da Keynes, hanno accompagnato l’eccezionale crescita delle economie occidentali nel dopoguerra, gli anni che in Francia sono stati chiamati «i trenta gloriosi». a dire il vero il solo periodo nella storia moderna in cui le classi lavoratrici hanno goduto di un relativo benessere.
Questi due strumenti sono stati banditi dalla controrivoluzione neoliberista, e le politiche che li vorrebbero prevedere sono oggi colpite da anatema, anche se tutti i governi che possono vi hanno fatto ricorso in maniera più o meno surrettizia e insidiosa.
Come tutti gli strumenti, il protezionismo e l’inflazione possono avere degli effetti negativi e perversi – e sono quelli che soprattutto si osservano oggi nel loro utilizzo nascosto (1) – ma è indispensabile farvi ricorso in modo intelligente per risolvere in modo soddisfacente, da un punto di vista sociale, le crisi attuali, ed evitare la catastrofe di una austerità deflattiva, ma anche il disastro certo di una ripresa produttivista.
Per questo oggi bisogna probabilmente uscire dall’euro, non potendo correggerlo. Bisogna riappropriarsi della moneta, che deve ritrovare il suo ruolo: servire e non asservire. Il denaro può essere un buon servitore, ma è sempre un cattivo padrone.
Notiamo per altro che la ripresa della signora Lagarde non è il rilancio produttivista di Joseph Stiglitz: è essenzialmente il rilancio dell’economia del casinò, quella della speculazione di borsa e immobiliare.
In effetti, per i governi in carica, lo slogan «sia ripresa sia austerità» significa la ripresa per il capitale e l’austerità per le popolazioni. In nome della ripresa, per altro largamente illusoria, degli investimenti e quella totalmente fallace dell’occupazione, vengono abbassati o soppressi gli oneri sociali, le imposte sulle professioni e l’imposta sugli utili delle imprese. Si rinuncia ad ogni imposizione sui super-profitti bancari e finanziari, mentre l’austerità colpisce duramente i salariati e i ceti medi e inferiori con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione (che significa concretamente la diminuzione del suo ammontare). Per completare il tutto, e preparare la mitica ripresa, si smantellano sempre più i servizi pubblici e si privatizza a tutta velocità ciò che ancora non è stato privatizzato, con una soppressione massiccia di posti di lavoro (nell’istruzione, nella sanità, ecc.).
Assistiamo a una strana corsa masochista all’austerità. Il Paese A annuncia una diminuzione dei salari del 20 per cento, allo stesso tempo il paese B annuncia che farà di meglio, con una diminuzione del 30 per cento, mentre il paese C, per non essere da meno si ingegna di aggiungere misure ancora più rigorose. Annunci per di più sommati alla pubblicità onnipresente, che incita a continuare a consumare sempre di più senza averne i mezzi e a indebitarsi senza la prospettiva di poter rimborsare il debito: bisogna in qualche modo espiare la pseudo festa del consumo pur continuando a sostenerla nella parte dei debitori.
Questa politica di austerità stupida non può che provocare un ciclo deflattivo che farà precipitare la crisi, ciò che la ripresa puramente speculativa non impedirà; e gli Stati dissanguati non potranno più, questa volta, salvare le banche a colpi di miliardi di dollari.
Questa politica non è solo immorale, ma è anche assurda. Otterremo il fallimento dell’euro, se non dell’Europa, e la catastrofe sociale.
In attesa di questa eventualità, se gli obiettori della crescita fossero incaricati di gestire gli affari della Grecia, per esempio, quale sarebbe la loro politica? Il ripudio puro e semplice del debito, ossia la bancarotta dello Stato, sarebbe una medicina da cavallo che risolverebbe il problema sopprimendolo. Tuttavia, questa soluzione radicale, che non è da escludere e avrebbe facilmente il favore dei «decrescitisti», rischierebbe di gettare il paese nel caos. Il problema è che, in effetti, in pratica la crisi dell’indebitamento degli Stati non è che una parte del problema. La risposta teorica alla sola questione del debito degli Stati che, anche per i più indebitati, è dell’ordine dell’ammontare del Pil, è per altri versi più facile a farsi di quella che concerne il trovare una soluzione per la bolla mondiale dei crediti nati dalla speculazione finanziaria (2). La minaccia di un rischio sistemico è lontana dal poter essere scartata.
Per quel che riguarda il debito pubblico, il suo annullamento rischierebbe di colpire non solo le banche e gli speculatori, ma anche direttamente o indirettamente i piccoli risparmiatori che hanno dato fiducia al loro Stato o che si sono fatti rifilare dalla loro banca, a loro insaputa, degli investimenti complessi che comprendono titoli dubbi. Una riconversione negoziata (che equivarrebbe a una bancarotta parziale), come quella che si è fatta in Argentina dopo il crollo del peso, o dopo un compromesso, come propongono Eric Toussaint e una coalizione di Ong per determinare la parte abusiva del debito, è senza dubbio preferibile. Si può anche prevedere di mantenere la quotazione dei titoli per i piccoli investitori e un deprezzamento per il 40 e il 60 per cento degli altri, o ancora ricorrere a un «haircut» fiscale (3). Per onorare il debito residuo, un aumento dei prelievi fiscali grazie a una tassa eccezionale sui profitti finanziari, come fa l’Ungheria, non sarebbe una cattiva idea, oltre che l’avvio di una fiscalità progressiva con, prima di tutto, nel caso francese l’abbandono reale dello scudo fiscale e delle nicchie scandalose.
In una società della crescita senza crescita, ossia più o meno la situazione attuale, lo Stato è condannato ad imporre ai cittadini l’inferno dell’austerità, con prima di tutto la distruzione dei servizi pubblici e la privatizzazione di quel che è ancora possibile vendere dei gioielli di famiglia. Facendo questo, si corre il rischio di creare una deflazione e di entrare nel ciclo infernale di una spirale depressiva. E’ precisamente per evitare questo che bisogna adoperarsi per uscire dalla società della crescita e di costruire una società della decrescita.
Uscire dalla religione della crescita
Di fronte a questa minaccia reale ci sono buoni spiriti, come Joseph Stiglitz, che raccomandano le vecchie ricette keynesiane del rilancio del consumo e dell’investimento per far ripartire la crescita. Questa terapia non è desiderabile. Non lo è perché il pianeta non può più sopportarla, ed è forse impossibile perché, dato l’esaurimento delle risorse naturali (in senso ampio) già dagli anni settanta, i costi della crescita (quando c’è) sono superiori ai suoi benefici. I guadagni di produttività che ci si può aspettare sono nulli o quasi nulli. Bisognerebbe privatizzare ancora e mercificare le ultime riserve di vita sociale e far crescere il valore di una massa immutata – o in diminuzione – dei valori d’uso, per prolungare solo di qualche anno l’illusione della crescita.
Tuttavia, questo programma socialdemocratico, che costituisce la missione dei partiti di opposizione, non è credibile, innanzitutto perché questi partiti non sono in grado di rimettere in questione la gabbia di ferro del quadro neoliberista che essi stessi hanno contribuito a costruire nel corso degli ultimi trent’anni, e che presuppone una sottomissione senza riserve ai dogmi monetaristi. L’esempio della Grecia è in questo abbastanza eloquente.
Si tratta di uscire dall’imperativo della crescita; altrimenti detto, di rifiutare la ricerca ossessiva della crescita. Che non è evidentemente (e non deve essere) uno scopo in sé; essa non rappresenta più il mezzo per abolire la disoccupazione (4). Bisogna tentare di costruire una società dell’abbondanza frugale, o per dirla come Tim Jackson di prosperità senza crescita.
In effetti, il primo obiettivo della transizione dovrebbe essere al ricerca del pieno impiego per rimediare alla miseria di una parte della popolazione. Questo potrebbe essere fatto con una rilocalizzazione sistematica delle attività utili, una riconversione progressiva delle attività parassitarie, come la pubblicità, o nocive, come il nucleare e gli armamenti, e una riduzione programmata e significativa del tempo di lavoro. Per il resto, è il ricorso a una inflazione controllata (diciamo più o meno il 5 per cento l’anno) quel che noi ci augureremmo. Questa soluzione keynesiana, che equivale al ricorso a una moneta complementare per stimolare l’attività economica senza per questo rientrare nella logica della crescita illimitata, faciliterebbe la soluzione dei problemi provocati dall’abbandono della religione della crescita.
Certo, questo bel programma è più facile da enunciare che da realizzare. Nel caso della Grecia, presuppone come minimo di uscire dall’euro e ristabilire la dracma, probabilmente non convertibile, con quel che questo implica: controllo dei cambi e ristabilimento delle dogane. Il necessario protezionismo di questa strategia provocherebbe l’orrore degli esperti di Bruxelles e dell’Omc. Bisognerebbe dunque aspettarsi delle misure di ritorsione e dei tentativi di destabilizzazione dall’estermo collegati al sabotaggio degli interessi lesi all’interno. Questo programma sembra perciò oggi molto utopico, ma quando saremo al fondo del marasma e della vera crisi che ci aspetta al varco sembrerà realistico e desiderabile.
Conclusione
Nella tragedia greca antica la catastrofe è la scrittura della strofa finale. Qui siamo. Un popolo vota massicciamente per un partito socialista il cui programma è classicamente socialdemocratico e, sotto la pressione dei mercati finanziari, si vede imporre una politica di austerità neoliberista da parte di quello stesso partito, che obbedisce alle ingiunzioni congiunte di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale. Rifiutare democraticamente questo diktat, quel che l’Islanda ha potuto fare, è impedito alla Grecia dall’euro. E’ chiaro che il popolo greco non accetterebbe probabilmente più, nella sua maggioranza, e comunque facilmente, le conseguenze delle rotture necessarie a un’altra politica (uscita dall’euro, disconoscimento almeno parziale del debito pubblico, messa al bando probabile da parte dell’Europa e embargo da parte dei paesi «derubati», fuga dei capitali, ecc.). Ma «il sangue e le lacrime», secondo la famosa frase di Churchill, sono già qui, purtroppo senza la speranza della vittoria. Il progetto della decrescita non pretende di fare un’economia di questo sangue e di queste lacrime, ma per lo meno apre la porta alla speranza. La sola maniera di cavarsela, noi ce lo auguriamo ardentemente, sarebbe di riuscire a fare uscire l’Europa dalla dittatura dei mercati e di costruire l’Europa della solidarietà, della convivialità, quel cemento del legame sociale che Aristotele chiamava «philia».
Note
(1) Secondo la Banca mondiale le conseguenze del protezionismo agricolo del Nord equivarrebbe a un mancato guadagno di 50 miliardi di dollari all’anno per i paesi esportatori del Sud. Il deputato verde tedesco Sven Giegold ne ha fornito un altro esempio con la politica fiscale tedesca per forzare le esportazioni.
(2) Secondo la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, in effetti, nel febbraio 2008 la creazione di prodotti derivati arrivava a 600.000 miliardi di dollari, ossia tra 11 e 15 volte il prodotto lordo mondiale! E qui, a parte il crollo, anche un «decrescitista» non ha una medicina miracolosa per un atterraggio morbido…
(3) E’ quel che ha proposto Thomas Piketti in un intervento sul giornale Libération del 28 giugno. Si tratta di far pagare alle banche una parte del rimborso del debito.
(4) Secondo il calcolo di Albert Jacquard («J’accuse l’economie triomphante», Calmann Lévy 1995 / Poche 2004, p. 63), si stima che una crescita del Pil francese del 4 per cento comporterebbe la diminuzione del tasso di disoccupazione del 2 per cento. A un tale ritmo, tra cinquant’anni il Pil sarà stato moltiplicato per sette (più 600 per cento), ma il numero dei disoccupati non si ridurrebbe che del 64 per cento. Dato che la disoccupazione, tutte le categorie incluse, riguardava nel 2010 5 milioni di persone, saremmo ancora molto lontani dal pieno impiego nel 2060, perché rimarrebbero un po’ meno di due milioni di disoccupati.
01 luglio 2011
LA CONTROMANOVRA
I DIRITTI ED IL WELFARE
RILANCIARE UN'ECONOMIA
SOSTENIBILE E GIUSTA
RIDURRE IL DEBITO
La manovra di Tremonti varata in queste ore dal governo affossa ancora di più
il paese nella depressione economica, deprime le possibilità di ripresa
dell'economia, fa pagare alla parte più esposta del paese il peso e le
conseguenze di questa crisi. Il pareggio di bilancio del 2014 non ci è stato
imposto dall'Unione Europea. E' una scelta politica di Tremonti che in questo
mondo rischia di portare il paese ancora di più nella recessione. E' una
manovra tutta concentrata furbescamente nel 2013-2014, quando -speriamopotrebbe
esserci un altro governo a fronteggiare l'emergenza economica.
Dopo mesi di inutile ottimismo e di stupida sottovalutazione della portata della
crisi, il governo si trova a dover prendere amaramente atto del fallimento della
sua politica economica, della fallacia delle sue previsioni iniziali, della futilità
delle speranze dell'”effetto traino” legato alla possibile ripresa dell'economia
mondiale. Dopo tre anni di provvedimenti tappabuchi, di mezzemisure
all'insegna del marketing e di fumo negli occhi, la situazione economica del
paese è gravissima, ed il peggio deve ancora venire. Avere tenuto sotto
(parzialissimo) controllo i conti pubblici, senza rilanciare l'economia e la
domanda interna, senza dare adeguata protezione sociale ed ai redditi si è
dimostrata una strategia fallimentare ed autolesionista, senza futuro.
La manovra di queste ore ne è la dimostrazione, e ora ne paghiamo il prezzo E
ancora una volta a subirne le conseguenze è la parte più debole del paese:
pensionati, lavoratori a basso reddito, consumatori, utenti dei servizi pubblici.
La reintroduzione dei ticket, l'inserimento dei costi standard nella sanità, la
riduzione dei trasferimenti agli enti locali, il blocco degli stipendi nella pubblica
amministrazione, l'intervento sulle pensioni stanno lì a dimostrare quanto
ancora una volta il prezzo della crisi è pagato dalla fasce sociali più deboli. Tra
i più colpiti sono i giovani: e con loro organizzeremo a Lamezia Terme la
prossima edizione della controcernobbio, dal 1 al 3 settembre, in cui
discuteremo di un piano nazionale del lavoro per i giovani e rilanciare la scuola
e l'università publica.
E' possibile, era possibile fare diversamente?
Sbilanciamoci -con la sua manovra da 50 miliardi di euro in 3 anni (per le
proposte nel dettaglio www.sbilanciamoci.org- - dimostra che si può fare.
Anche tagliando la spesa pubblica: quella militare, delle grandi opere, per le
scuole private, per il business della sanità privata. E con una politica fiscale che
colpisca le rendite e non i salari, i grandi patrimoni e non i bassi redditi, i
consumi ecologicamente dannosi e non i consumi pubblici ed i servizi sociali. E'
possibile garantirsi in questo modo un flusso costante di risorse da destinare da
una parte all'abbattimento del debito e dall'altra a dare protezione sociale a chi
è colpito dalla crisi e a rilanciare un'economia diversa fondata su un nuovo
modello di sviluppo.
Serve una tassa sui patrimoni milionari (che ci porterebbe oltre 10 miliardi di
euro di entrate), bisogna portare la tassazione delle rendite al 23% e
aumentare l'imposizione fiscale sui redditi superiori ai 70mila euro annui dal 43
al 45%. Nel contempo è necessario ridurre del 20% la spesa militare e
cancellare il programma di 131 cacciabombardieri F35 (che ci costano più di
16miliardi di euro). Questi sono passi obbligati in tempi di crisi: in Germania e
in Gran Bretagna sono state ridotte le spese militari, in Italia, ancora no.
E servono misure per rilanciare l'economia attraverso un programma di
"piccole opere" (cancellando Ponte sullo Stretto e Tav), di sostegno alla green
economy (energie rinnovabili, mobilità sostenibile, agricoltura biologica, ecc),
di incentivo e difesa dei redditi, unica garanzia perchè possa riattivarsi una
domanda interna. In questo senso la lotta al precariato, il sostegno alle
pensioni più basse, il recupero del fiscal drag e il reddito di cittadinanza sono
misure assolutamente necessarie in questa fase.
L'Italia con questo governo e con le politiche fatte negli ultimi tre anni rischia di
“uscire” dalla crisi ancora peggio da come ci era entrata. Altri paesi stanno
aggiustando la mira, stanno cambiando in parte le loro politiche, si stanno
dando, almeno in parte, una vera politica economica ed industriale. Il governo
Tremonti ha assecondato un nefasto mix di corporativismo, assistenzialismo e
neoliberismo che sta portando l'economia italiana verso una situazione di
neofeudalesimo economico. La distruzione del capitale umano e sociale
(l'università, la scuola, la coesione sociale, il welfare) rischia di avere effetti
nefasti per il futuro e di produrre un livellamento verso il basso accompagnato
però dall'accentuazione della forbice delle diseguaglianze, dalla crescita dei
privilegi e del disagio sociale. E' ora di cambiare rotta, mettere questo governo
quanto prima nelle condizioni di non nuocere e ricostruire le ragioni della
speranza di un paese diverso: con un modello di sviluppo fondato sulla
sostenibilità ed i diritti.
Leggi il testo completo della Contromanovra Finanziaria di SBILANCIAMOCI
DI SBILANCIAMOCI
2012-2014PER DIFENDERE IL LAVORO,
I DIRITTI ED IL WELFARE
RILANCIARE UN'ECONOMIA
SOSTENIBILE E GIUSTA
RIDURRE IL DEBITO
La contromanovra di Sbilanciamoci!
La manovra di Tremonti varata in queste ore dal governo affossa ancora di più
il paese nella depressione economica, deprime le possibilità di ripresa
dell'economia, fa pagare alla parte più esposta del paese il peso e le
conseguenze di questa crisi. Il pareggio di bilancio del 2014 non ci è stato
imposto dall'Unione Europea. E' una scelta politica di Tremonti che in questo
mondo rischia di portare il paese ancora di più nella recessione. E' una
manovra tutta concentrata furbescamente nel 2013-2014, quando -speriamopotrebbe
esserci un altro governo a fronteggiare l'emergenza economica.
Dopo mesi di inutile ottimismo e di stupida sottovalutazione della portata della
crisi, il governo si trova a dover prendere amaramente atto del fallimento della
sua politica economica, della fallacia delle sue previsioni iniziali, della futilità
delle speranze dell'”effetto traino” legato alla possibile ripresa dell'economia
mondiale. Dopo tre anni di provvedimenti tappabuchi, di mezzemisure
all'insegna del marketing e di fumo negli occhi, la situazione economica del
paese è gravissima, ed il peggio deve ancora venire. Avere tenuto sotto
(parzialissimo) controllo i conti pubblici, senza rilanciare l'economia e la
domanda interna, senza dare adeguata protezione sociale ed ai redditi si è
dimostrata una strategia fallimentare ed autolesionista, senza futuro.
La manovra di queste ore ne è la dimostrazione, e ora ne paghiamo il prezzo E
ancora una volta a subirne le conseguenze è la parte più debole del paese:
pensionati, lavoratori a basso reddito, consumatori, utenti dei servizi pubblici.
La reintroduzione dei ticket, l'inserimento dei costi standard nella sanità, la
riduzione dei trasferimenti agli enti locali, il blocco degli stipendi nella pubblica
amministrazione, l'intervento sulle pensioni stanno lì a dimostrare quanto
ancora una volta il prezzo della crisi è pagato dalla fasce sociali più deboli. Tra
i più colpiti sono i giovani: e con loro organizzeremo a Lamezia Terme la
prossima edizione della controcernobbio, dal 1 al 3 settembre, in cui
discuteremo di un piano nazionale del lavoro per i giovani e rilanciare la scuola
e l'università publica.
E' possibile, era possibile fare diversamente?
Sbilanciamoci -con la sua manovra da 50 miliardi di euro in 3 anni (per le
proposte nel dettaglio www.sbilanciamoci.org- - dimostra che si può fare.
Anche tagliando la spesa pubblica: quella militare, delle grandi opere, per le
scuole private, per il business della sanità privata. E con una politica fiscale che
colpisca le rendite e non i salari, i grandi patrimoni e non i bassi redditi, i
consumi ecologicamente dannosi e non i consumi pubblici ed i servizi sociali. E'
possibile garantirsi in questo modo un flusso costante di risorse da destinare da
una parte all'abbattimento del debito e dall'altra a dare protezione sociale a chi
è colpito dalla crisi e a rilanciare un'economia diversa fondata su un nuovo
modello di sviluppo.
Serve una tassa sui patrimoni milionari (che ci porterebbe oltre 10 miliardi di
euro di entrate), bisogna portare la tassazione delle rendite al 23% e
aumentare l'imposizione fiscale sui redditi superiori ai 70mila euro annui dal 43
al 45%. Nel contempo è necessario ridurre del 20% la spesa militare e
cancellare il programma di 131 cacciabombardieri F35 (che ci costano più di
16miliardi di euro). Questi sono passi obbligati in tempi di crisi: in Germania e
in Gran Bretagna sono state ridotte le spese militari, in Italia, ancora no.
E servono misure per rilanciare l'economia attraverso un programma di
"piccole opere" (cancellando Ponte sullo Stretto e Tav), di sostegno alla green
economy (energie rinnovabili, mobilità sostenibile, agricoltura biologica, ecc),
di incentivo e difesa dei redditi, unica garanzia perchè possa riattivarsi una
domanda interna. In questo senso la lotta al precariato, il sostegno alle
pensioni più basse, il recupero del fiscal drag e il reddito di cittadinanza sono
misure assolutamente necessarie in questa fase.
L'Italia con questo governo e con le politiche fatte negli ultimi tre anni rischia di
“uscire” dalla crisi ancora peggio da come ci era entrata. Altri paesi stanno
aggiustando la mira, stanno cambiando in parte le loro politiche, si stanno
dando, almeno in parte, una vera politica economica ed industriale. Il governo
Tremonti ha assecondato un nefasto mix di corporativismo, assistenzialismo e
neoliberismo che sta portando l'economia italiana verso una situazione di
neofeudalesimo economico. La distruzione del capitale umano e sociale
(l'università, la scuola, la coesione sociale, il welfare) rischia di avere effetti
nefasti per il futuro e di produrre un livellamento verso il basso accompagnato
però dall'accentuazione della forbice delle diseguaglianze, dalla crescita dei
privilegi e del disagio sociale. E' ora di cambiare rotta, mettere questo governo
quanto prima nelle condizioni di non nuocere e ricostruire le ragioni della
speranza di un paese diverso: con un modello di sviluppo fondato sulla
sostenibilità ed i diritti.
Leggi il testo completo della Contromanovra Finanziaria di SBILANCIAMOCI
28 giugno 2011
Il Fondo Etico in cammino verso la rete dei beni e dei servizi ……alcune riflessioni
Alla scorsa assemblea è stata presentata l'idea di creare una rete di scambio di beni e servizi fra i soci del fondo etico, per tentare un altro percorso possibile nel nostro cammino di emancipazione dal denaro.
Ecco le domande che ci siamo posti: cos'è per noi la ricchezza? E cosa pensiamo di poter scambiare fra di noi? Allora ognuno, chi più o meno titubante, ha attaccato sul grande tabellone i tondini di cartone che rappresentavano la ricchezza che si sentiva di poter condividere in termini di oggetti, capacità professionali e non, passioni, attitudini. Ho percepito nelle parole e nei volti di tutti noi il tentativo di un grande sforzo per rispondere a queste domande, perchè quello che ci è stato fatto credere è che c'è un modo preciso per misurare la ricchezza, cioè quanto valgono in denaro le nostre cose, a quanto possiamo vendere sul mercato le nostre capacità e il nostro lavoro. Invece tutto questo può avere un valore diverso da quello di mercato: quante cose ci vengono proposte come ricchezza, ma hanno poco valore per la nostra felicità, e quante cose non si possono comprare perchè dipendono solo dall'incontro fra le persone, dalla nostra disponibilità di condivisione, dal coraggio di uscire dal recinti della nostra vita, da questi steccati che ci regalano perfino l'illusione di sicurezza e di indipendenza dal resto del mondo? Ci hanno detto che l'interesse individuale coincide con l'interesse collettivo, e che il mercato serve a soddisfare questo interesse. Invece il "mercato", o una rete di scambio, può essere un importante momento di collaborazione fra le persone, che possono dare un valore diverso alla ricchezza, che ci può aiutare a riscoprire il "noi" e il bene comune, e più determinato dalle diversità di ognuno e dalle interazioni umane che si creano, e quindi più imprevedibile. Per aprire il sistema dobbiamo passare da una relazione esclusiva e bilaterale fra due individui, in cui potrei non avere niente da dare in cambio se non il denaro, ad una relazione capace di includere un maggior numero possibile di persone, in cui posso restituire qualcosa a qualcun altro all'interno di una rete, in un sistema di reciprocità indiretta: potendo creare una rete abbastanza estesa, il numero delle combinazioni diventa talmente grande che ciascun partecipante può trovare facilmente a chi dare, da chi ricevere e a chi restituire. Non si tratta di fare beneficienza, ma di ripensare al valore della nostra ricchezza, a quello che serve veramente per i bisogni materiali e per la nostra serenità, e da qui partire per ricostruire relazioni di scambio autentiche, fuori dalla spersonalizzazione del mercato, più modellabili in base alle nostre reali necessità e differenze.
E quanto ci sarebbe da discutere sul valore di mercato, su un sistema monetario distorto dalla speculazione finanziaria, basato sulla scarsità e sull'accumulo sempre maggiore di denaro nelle mani di pochi, che sottrae ricchezza all'economia reale penalizzando proprio quella che dà lavoro, che si basa sugli scambi locali e sulle piccole attività, e che alimenta la necessità di una crescita globale permanente e distruttiva e di una competizione costante e crescente fra le persone, in cui perfino il dono diventa uno strumento di affermazine di sè.
Questo è un sistema finanziario in cui neanche i soldi sono della collettività: ogni volta che viene emessa nuova moneta vengono addebitati gli stati come se il valore dei soldi non derivasse dalla ricchezza che abbiamo e che ci scambiamo ma dalla possibilità di emetterli, che ha solo la banca centrale, controllata indirettamente da banche privatissime. Infine, il meccanismo dell'interesse fa il resto: è impossibile uscire dalla spirale del debito globale e dell'accumulo della ricchezza con queste regole. Questo sistema non è stato neanche in grado di prevedere la più grande crisi avvenuta dopo quella del '29, e si regge su un castello di carte destinato a venire giù come la Torre di Babele: le transazioni finanziarie sono 100 volte l'econimia reale, gli scambi valutari registrati misurano 17 mila volte la ricchezza mondiale. Non possiamo basare la nostra vita su un mezzo, quello del denaro, che non obbedisce non solo a nessuna logica di giustizia sociale, ma neanche alle regole del buon senso.
Ci sono decine di esperienze nel mondo in cui sistemi complementari, monetari e non, hanno cambiato le sorti di intere province con una diffusione enorme. Basta pensare al caso dei LETS (Local Exchange Trading Systems) in Gran Bretagna, in cui diversi enti locali cercano addirittura di incentivarli nelle zone a basso reddito. Le reti dei LETS comprendono oltre 40 mila persone e danno la possibilità di soddisfare bisogni che lo stato non fornisce più, o che richiederebbero troppo denaro. Oppure al caso dei ROCS (Robust Complementary Community Currency System), o dei SEL francesi (Systeme d'Echange Local), dei Tauscring tedeschi o dei Sistemi di Reciprocità Indiretta (SRI) presenti nel Sud Italia. Senza parlare dei sistemi di scambio che hanno permesso alle popolazioni sud americane di far fronte a crisi finanziare come quella argentina. Negli USA dopo la grande depressone del '29 furono coinvolte quasi un milione di persone nella creazione di 159 reti di autosostentamento per i gruppi sociali più colpiti dalla crisi, e in Germania nella regione della Baviera furono interessate oltre 2,5 milioni di persone, in un sistema monetario alternativo che penalizzava l'accumulo e che risolllevò le sorti di intere comunità locali, finchè la banca centrale non decise di intervenire. Negli USA e nel Canada, esperienze come quella del Green Dollar, degli Ithaca Hours e del Community Exchange di Vancouver coinvolgono milioni di persone.
Ciò che ci dimentichiamo è che il denaro non è una cosa autonoma: è un patto nelle mani di una comunità, che lo usa come strumento di scambio. Si può creare un nuovo patto e un nuovo sistema monetario, che sia più adeguato ai nostri valori. Si può creare intanto una moneta complementare che non si basi sulla scarsità, l'accumulo e la competizione che ne deriva, ma sulla reciprocità e la redistribuzione.
Detto questo, dobbiamo partire con i piedi ben saldi sul nostro suolo, ma sapendo che questa idea, questa piccola rete in cui 40 persone, il 2 aprile 2011, hanno ripensato alla propria ricchezza e hanno deciso di scambiarla fra loro, può portarci davvero lontano e può avere degli sviluppi che neanche immaginiamo.
(Alessandro)
FERMATEVI !
Un appello alle istituzioni e alla politica
I referendum del 12 e 13 giugno hanno cambiato lo scenario politico ponendo al centro dell’attenzione pubblica i beni comuni e il bene comune. Di fronte a noi – ai milioni di donne e uomini che hanno contribuito al successo referendario – sta ora l’obiettivo di costruire una agenda politica in grado di mettere in campo un nuovo progetto di società, di sviluppo e di partecipazione democratica.
Di questa prospettiva c’è oggi un banco di prova non eludibile: lo scontro tra istituzioni e popolazione locale sull’inizio dei lavori di costruzione, in Val Susa, di un cunicolo esplorativo in funzione preparatoria del tunnel di 54 km per la progettata linea ferroviaria ad alta capacità Torino-Lione. Per superare la situazione di stallo determinata da tale scontro si prospetta un intervento di polizia (o addirittura militare) che rimuova le resistenze in atto. Sarebbe una soluzione sbagliata e controproducente.
Ci possono essere opinioni diverse sulla necessità di potenziare il trasporto ferroviario nell’area e sulle relative modalità ma una cosa è certa. La costruzione della linea ad alta capacità Torino-Lione (e delle opere ad essa funzionali) non è una questione (solo) locale e l’opposizione delle popolazioni interessate non è un semplice problema di ordine pubblico. Si tratta, al contrario, di questioni fondamentali che riguardano il nostro modello di sviluppo e la partecipazione democratica ai processi decisionali.
Per questo, unendoci ai diversi appelli che si moltiplicano nel Paese, chiediamo alla politica e alle istituzioni un gesto di razionalità: si sospenda l’inizio dei lavori e si apra un ampio confronto nazionale (sino ad oggi eluso) su opportunità, praticabilità e costi dell’opera e sulle eventuali alternative. In un momento di grave crisi economica e di rinnovata attenzione ai beni comuni riesaminare senza preconcetti decisioni assunte venti anni fa è segno non di debolezza ma di responsabilità e di intelligenza politica.
26 giugno 2011
Paolo Beni, Marcello Cini, Luigi Ciotti, Beppe Giulietti, Maurizio Landini, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Luca Mercalli, Giovanni Palombarini, Valentino Parlato, Livio Pepino, Carlo Petrini, Rita Sanlorenzo, Giuseppe Sergi, Alex Zanotelli
27 giugno 2011
Nella rete: il Cerro in festa
Durante l’assemblea della cooperativa sociale il Cerro, convocata per l’elezione dei componenti del CdA e del Presidente, è stata richiesta la disponibilità ad alcuni dei presenti, per affiancare i consiglieri nell’organizzazione di una giornata di festa della cooperativa, da tenersi al centro sociale l’11 del mese di giugno. Per me è sempre lenta la risposta a certe richieste ma questa volta il braccio si è alzato da solo. Così io che vivo l’esperienza e le attività della cooperativa da esterno, mi sono trovato con persone che conosco e frequento, più coinvolte nelle molteplici attività del Cerro, a pensare e organizzare una festa mettendomi a disposizione. Si a disposizione, che per me non viene facile, essendo abituato per motivi di lavoro e di carattere, a organizzare coordinare, prendere decisioni. Inoltre una voce interiore mi ricordava, che conoscendo da esterno la realtà della cooperativa, la sensazione di “non essere abbastanza” all’altezza per poter dare il mio contributo, era presente. Le prime riunioni mi hanno confermato in queste sensazioni, in quanto si parlava delle attività che la cooperativa porta avanti, con continui riferimenti a una quotidianità di relazioni e informazioni, di conoscenze che facevano sentire la mia presenza “solo buona” per decidere se le magliette da realizzare erano più belle verdi nonché gialle oppure se il banchino della tale attività era più giusto metterlo sotto l’albero invece che davanti alla bottega. Mah!! Mi sentivo di scarsa utilità. Le riunioni sono proseguite e anche quello che un primo momento mi sembrava di scarsa utilità, con l’attenzione e l’ascolto discreto delle persone presenti, è diventato il filo, in un nodo, di una rete che prendeva forma. Ho avvicinato la quotidianità delle persone che sono inserite nelle attività lavorative della coop. Il Cerro, selezionando e applicando su dei cartelloni le foto delle loro giornate di lavoro; ho contribuito alla scelta del menù e dello spettacolo immaginandomi i volti delle persone che sarebbero intervenute alla festa pensando ad un’occasione di leggerezza e convivialità condivisa. Prima dell’inizio ho steso un nastro rosso nel piazzale tra il centro sociale e la bottega, che nelle ns. intenzioni rappresenta il collegamento intimo, stretto di tutte le attività che il Cerro racchiude. Questo tempo che ho impegnato percorrendo accovacciato tutto il piazzale per stendere e fissare il nastro in una forma che rappresentasse il simbolo del Cerro, l’albero, mi ha fatto “sentire” le Voci delle persone che abitano questo luogo e “raggiungere” le Energie delle persone che si spendono nelle attività della coop. soc. Il Cerro. Grazie per la giornata “Il Cerro in festa”, grazie per la buona occasione, grazie per sentirmi parte.
(Lorenzo)
19 giugno 2011
ASSEMBLEA DEI SOCI
DEL
FONDO ETICO E SOCIALE DELLE PIAGGE
SABATO 2 Luglio 2011 alle ore 17,00
Centro Sociale “IL POZZO”
via Lombardia, 1/p tel. 055373737
L'Assemblea è aperta a tutte le persone interessate
Alle ore 20,00 presso il Centro Sociale IL POZZO è prevista una cena organizzata dall’associazione Italia Palestina per raccogliere fondi per i progetti di sostegno al popolo palestinese. Chi lo desidera potrà cenare con gli amici dell’associazione con un contributo di 12 euro. E’ opportuno prenotarsi per tempo presso il Centro Sociale.
18 giugno 2011
S.O.S. CAFFÈ TATAWELO !!!
Cari amici, care amiche, sostenitori e sostenitrici del Progetto Tatawelo, anche quest’anno, in Chiapas, la fase della raccolta del caffè è volta al termine.
In queste settimane i soci della Ssit Lequil Lum stanno lavorando per ammassare il caffè che è stato raccolto
dagli oltre 500 soci e per selezionare la qualità “Excelente”.
Dalla semina, alla raccolta, alla selezione del caffè, ogni anno il ciclo si ripete uguale a se stesso. O meglio:
dovrebbe ripetersi uguale a se stesso. In realtà, tra gli stravolgimenti cui è soggetta “Madre Natura”, i
mutamenti continui insiti al libero mercato e le difficoltà cui sono soggetti i nostri amici chiapanechi, fanno sì
che questo ciclo presenti ogni anno nuove difficoltà.
Le principali difficoltà che hanno stravolto il ciclo 2010-2011 sono state legate (1) all’aumento mondiale della
domanda di caffè a fronte di (2) un calo drastico della produzione, quindi ad un (3) conseguente aumento del
prezzo del caffè:
1) L’aumento della domanda di caffè è legato principalmente ai fenomeni di inurbamento e al cambiamento
delle abitudini alimentari di molti Paesi in Via di Sviluppo (emblematici i casi di Cina e India dove, oltre a
mangiare sempre più carne, si beve sempre più caffè e aumentano le catene tipo Starbucks).
2) Il calo della produzione è legato essenzialmente agli stravolgimenti climatici. In Centro America, la
tempesta tropicale Aghata, che ha colpito il Guatemala lo scorso maggio, ha fatto le sue vittime anche nel Sud
del Messico. Le piogge e i forti venti sono continuati anche nella cosiddetta “stagione secca”, mettendo in crisi un’ampia parte di piantagioni di caffè.
Effetto diretto sui nostri produttori: - 35% del raccolto (dalle circa 60 tonnellate che ha esportato gli scorsi anni,
quest’anno la Ssit Lequil Lum riuscirà ad esportarne a malapena 38-39).
Il lavoro e i costi sostenuti dai produttori per farci arrivare il caffè, però, non sono diminuiti. Per loro, infatti,
preparare e inviare tre container in Europa (in Italia, in Francia e in Germania) comporta sempre gli stessi
passaggi e gli stessi costi: devono pagare l’affitto dell’ufficio, rimborsare le spese della “mesa directiva” (che pur svolgendo lavoro volontario, ha delle spese minime), ammassare il caffè raccolto dai produttori, affittare i trailer per il trasporto, resistere alla concorrenza dei coyotes (che quest’anno hanno raddoppiato i prezzi) e fare le solite pratiche per l’esportazione: recarsi presso gli uffici governativi, farsi trattar male dal funzionario di turno, richiedere il certificato fitosatinario, il certificato Anmecafè e gli altri documenti, uno per ogni container, ecc, ecc...
Insomma, in fin dei conti, per i nostri produttori, a diminuire non è il carico di lavoro ma solo i margini di
guadagno.
Tanto più che hanno scelto nuovamente di rimanere fedeli alla rete di economia solidale anche quando questa, purtroppo, non ha potuto garantire un prezzo di gran lunga superiore a quello pagato dai coyotes.
3) A livello mondiale, quest’anno, il prezzo del caffè ha raggiunto picchi record che non raggiungeva dal 1997.
Da “compratori solidali” ovviamente, non possiamo stare a guardare.
Già al momento della firma del prefinanziamento ad ottobre abbiamo aumentato il prezzo del caffè e aumentato l’anticipo fino all’80%. Ma neanche questo è sufficiente, considerata la situazione in cui si stanno trovando i nostri produttori.
Vorremmo fare qualcosa in più. E questo è possibile solo con l’aiuto di tutti voi:
vorremmo assumerci il costo del trasporto del nostro container di caffè da Yajalón, in Chiapas, al porto di
Veracruz. Si tratta di 1.500 euro e rappresenta circa il 15% dei costi assunti dalla cooperativa per l’esportazione del caffè.
Nel contempo vorremmo cercare di integrare il prezzo del caffè pagato con il pre-contratto, per compensare in
qualche modo alla minore quantità del raccolto, che sta riducendo in modo significativo le risorse economiche
a disposizione dei produttori, con contraccolpi pesanti sulla loro vita quotidiana.
I produttori hanno dimostrato che tutti gli sforzi fatti per sostenere il loro lavoro non sono stati vani: la qualità
del lavoro è migliorata di anno in anno, e con essa la qualità del caffè.
Chiediamo quindi ai nostri prefinanzianti e a tutti i nostri sostenitori di collaborare attivamente in questa
raccolta fondi “straordinaria”, per aiutare i produttori del caffè Tatawelo in questo difficile momento.
Vale davvero la pena fare questo sforzo in più!
Il Consiglio Direttivo ed il Gruppo Operativo della Associazione Tatawelo
Per dare questo contributo potete effettuare un versamento tramite Bonifico Bancario intestato a:
ASSOCIAZIONE TATAWELO
VIA SCIPIONE DE' RICCI 6/R – 50134 FIRENZE (FI)
BANCA POPOLARE ETICA SCARL - Filiale di FIRENZE
IBAN IT 42 U 05018 02800 000000117306
Indicare come causale: SOS caffè 2011
Per favore inviare cenno del vostro versamento a: prefinanziamentotatawelo@gmail.com
(nelle immagini il presidente della cooperativa Ssit Lequil Lum, il trailer con il caffè e, in rosso, il percorso che deve fare il camion dal Chiapas al Porto di Veracruz, dove viene imbarcato per Genova)
(
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