12 dicembre 2011

Dal Forum “Via di uscita”- Firenze 9 dicembre 2011 Proposta di Appello Europeo per “Un’altra strada per l’Europa”

La crisi dell’Europa è l’esaurirsi di un percorso fondato sul neoliberismo e sulla finanza. Negli ultimi vent’anni il volto dell’Europa è stato il mercato e la moneta unica, liberalizzazioni e bolle speculative, perdita di diritti ed esplodere delle disuguaglianze. Alla crisi finanziaria, le autorità europee e i governi nazionali hanno dato risposte irresponsabili: hanno rifiutato di intervenire con gli strumenti dell’Unione monetaria per arginare la crisi, hanno imposto a tutti i paesi politiche di austerità e tagli di bilancio, che saranno ora inseriti nei trattati europei. I risultati sono che la crisi finanziaria si estende a quasi tutti i paesi, l’euro potrebbe saltare, si profila una nuova grande depressione, c’è il rischio della disintegrazione dell’Europa.
L’Europa può sopravvivere soltanto se cambia strada. Un’altra Europa può essere possibile, se prende il volto del lavoro, dell’ambiente, della democrazia, della pace, di più integrazione. E’ la strada indicata da una parte importante della cultura e della società europea, dai movimenti per la giustizia, dalle proteste in tutti i paesi contro le politiche di austerità dei governi. E’ una strada che non ha ancora trovato un’eco tra le forze politiche europee.
La strada per un’altra Europa deve far convergere le visioni di cambiamento, le proteste sociali, le politiche nazionali ed europee verso un quadro comune.
Proponiamo cinque obiettivi da cui partire:
  • Ridimensionare la finanza. La finanza – all’origine della crisi – dev’essere messa nelle condizioni di non devastare più l’economia. L’Unione monetaria dev’essere riorganizzata e deve garantire collettivamente il debito pubblico dei paesi che adottano l’euro; non può essere accettato che il peso del debito distrugga l’economia dei paesi in difficoltà. Tutte le transazioni finanziarie devono essere tassate, devono essere ridotti gli squilibri prodotti dai movimenti di capitale, una regolamentazione più stretta deve impedire le attività più speculative e rischiose, si deve creare un’agenzia di rating pubblica europea.
  • Integrare le politiche economiche. Oltre a mercato e moneta servono politiche comuni in altri ambiti, che sostituiscano il Patto di Stabilità e Crescita, riducano gli squilibri, cambino la direzione dello sviluppo. In campo fiscale occorre armonizzare la tassazione in Europa, spostando il carico fiscale dal lavoro alla ricchezza e alle risorse non rinnovabili, con nuove entrate che finanzino la spesa a livello europeo. La spesa pubblica – a livello nazionale e europeo – dev’essere utilizzata per rilanciare la domanda, difendere il welfare, estendere le attività e i servizi pubblici. Le politiche industriali e dell’innovazione devono orientare produzioni e consumi verso maggiori competenze dei lavoratori, qualità e sostenibilità. Gli eurobond devono essere introdotti non per rifinanziare il debito, ma per finanziare la riconversione ecologica dell’economia europea, con investimenti capaci di creare occupazione e tutelare l’ambiente.
  • Aumentare l’occupazione, tutelare il lavoro, ridurre le disuguaglianze. I diritti del lavoro e il welfare sono elementi costitutivi dell’Europa. Dopo decenni di politiche che hanno creato disoccupazione, precarietà e impoverimento, e hanno riportato le disuguaglianze in Europa ai livelli degli anni trenta, ora serve mettere al primo posto sia la creazione di un’occupazione stabile, di qualità, con salari più alti e la tutela dei redditi più bassi che la democrazia e la contrattazione collettiva.
  • Proteggere l’ambiente. La sostenibilità, l’economia verde, l’efficienza nell’uso delle risorse e dell’energia devono essere il nuovo orizzonte dello sviluppo europeo. Tutte le politiche devono tener conto degli effetti ambientali, ridurre il cambiamento climatico e l’uso di risorse non rinnovabili, favorire le energie pulite, le produzioni locali, la sobrietà dei consumi.
  • Praticare la democrazia.La forme della democrazia rappresentativa e della democrazia solciale attraverso partiti, rappresentanza sociale e governi nazionali, sono sempre meno capaci di dare risposte ai problemi. A livello europeo, la crisi toglie legittimità alle burocrazie – Commissione e Banca centrale – che esercitano poteri senza risponderne ai cittadini, mentre il Parlamento europeo non ha ancora un ruolo adeguato. In questi decenni la società civile europea ha sviluppato movimenti sociali e pratiche di democrazia partecipativa e deliberativa – dalle mobilitazioni dei Forum sociali alle proteste degli indignados in molti paesi – che hanno dato ai cittadini la possibilità di essere protagonisti. Queste esperienze hanno bisogno di una risposta istituzionale. Occorre superare il divario tra i cambiamenti economici e sociali di oggi e gli assetti istituzionali e politici che sono fermi a un’epoca passata. L’inclusione sociale e politica dei migranti è una condizione imprescindibile di promozione della convivenza civile e rappresenta un’opportunità per l’inclusione dell’area europea dei movimenti dell’Africa mediterranea che hanno rovesciato regimi autoritari.
  • Fare la pace. L’integrazione europea ha consentito di superare molti conflitti, ma l’Europa resta responsabile della presenza di armi nucleari e di un quinto della spesa militare mondiale: 316 miliardi di dollari nel 2010. Con gli attuali problemi di bilancio, drastici tagli e razionalizzazioni della spesa militare sono indispensabili. L’Europa deve costruire la pace intorno a sé con una politica di sicurezza umana anziché di proiezione di forza militare. L’Europa si deve aprire alle nuove democrazie del Medio oriente, così come si era aperta ai paesi dell’Europa dell’est. Si deve aprire ai migranti riconoscendo i diritti di tutti i cittadini del mondo.
Le mobilitazioni dei cittadini, le esperienze della società civile, del sindacato e dei movimenti che hanno costruito quest’orizzonte diverso per l’Europa devono ora trovare ascolto nelle forze politiche e nelle istituzioni nazionali ed europee.
Trent’anni fa, all’inizio della “nuova guerra fredda” tra est e ovest, l’Appello per il disarmo nucleare europeo lanciava l’idea di un’Europa libera dai blocchi militari e chiedeva di “cominciare ad agire come se un’Europa unita, neutrale e pacifica già esistesse”. Oggi, nella crisi dell’Europa della finanza, dei mercati, della burocrazia, dobbiamo lanciare l’idea e le pratiche di un’Europa egualitaria, di pace, verde e democratica.

Primi firmatari (relatori e organizzatori dell’incontro di Firenze):
Rossana Rossanda, Maurizio Landini, Paul Ginsborg, Luigi Ferrajoli, Mario Pianta, Massimo Torelli, Gabriele Polo, Giulio Marcon, Guido Viale, Annamaria Simonazzi, Norma Rangeri, Donatella Della Porta, Alberto Lucarelli, Mario Dogliani, Tania Rispoli, Claudio Riccio, Gianni Rinaldini, Chiara Giunti, Domenico Rizzuti e Vilma Mazza.

Per adesioni: info@reteasinistra.it

11 dicembre 2011

DALLE PENSIONI SI SPREME ASSISTENZIALISMO PER BANCHIERI

Molti commentatori hanno notato che la presenza di esponenti di Banca Intesa San Paolo nel governo Monti configura alcuni evidenti conflitti d'interessi, in particolare nel settore delle infrastrutture, data la partecipazione della banca al business dell'alta velocità. Un aspetto che invece è stato poco messo in evidenza concerne la riforma pensionistica, poiché da tempo le banche offrono ai clienti una serie di opzioni di previdenza integrativa privata, costituendo così una concorrenza alla previdenza pubblica. Intesa San Paolo non fa eccezione a riguardo, anzi è una delle banche più presenti nel settore della previdenza integrativa.[1] C'è da osservare però che in Italia la previdenza integrativa privata non ha mai riscosso particolare successo: solo il 23% di media, contro il 91% all'estero. La constatazione è stata fatta, con rammarico, dal presidente dell'INPS, Antonio Mastrapasqua, il quale qualche giorno fa ha invitato bruscamente i lavoratori italiani ad adeguarsi alla previdenza integrativa privata, da ritenersi, secondo lui, ormai "obbligatoria".[2] Che il presidente dell'ente pubblico INPS abbia assunto una posizione così sfacciata a favore della privatizzazione della previdenza, non risulta poi tanto sorprendente, poiché Antonio Mastrapasqua è anche vicepresidente esecutivo di Equitalia SpA, l'agenzia di esazione e di recupero crediti. In questa unione di cariche, così apparentemente incompatibili, c'è in effetti un messaggio molto evidente.[3] Si delinea quindi una precisa volontà, per la quale la previdenza pubblica viene messa in condizione di non erogare più il servizio per il quale era nata; infatti il sistema contributivo pubblico non corrisponde più al traguardo di percepire una pensione, ma si configura come un tributo tout court. Il servizio previdenziale dovrà quindi essere pagato privatamente, e le varie "riforme" delle pensioni vanno appunto nel senso di quanto dichiarato da Mastrapasqua: rendere "obbligatoria" quella previdenza privata che i lavoratori non gradiscono, e ciò semplicemente negando la previdenza pubblica, che diventa nient'altro che una fiscalità mascherata. Viene così creato artificiosamente e forzosamente un business ad uso delle banche e delle compagnie assicurative: il solito assistenzialismo per ricchi. Risulta infatti evidente dal bilancio dell'INPS, fornito dallo stesso Mastrapasqua, che i dati utilizzati per parlare di pensioni sono ampiamente truccati, come del resto si sa da sempre. A carico dell'INPS vi sono una serie di voci "improprie" che costituiscono il passivo dell'ente: il pagamento dei TFR anche delle aziende che falliscono - che sono invece un prestito forzoso dei lavoratori alle aziende -, i prepensionamenti, l'assistenza (handicap e non autosufficienza). Ma fanno la loro parte soprattutto i "fondi speciali", come la mitica "cassa di previdenza dei dirigenti d'azienda" (l'ex INPDAI) che, una volta fallita, è stata caricata sulle spalle del bilancio dei lavoratori dipendenti, che risulta invece in attivo. C'è anche però chi fa notare che, fondi speciali o meno, prima dell'arrivo di Equitalia il bilancio dell'INPS era sempre stato positivo per parecchi miliardi.[4] Ma ciò che dovrebbe screditare maggiormente l'emergenza-pensioni riguarda proprio la storia dell'ideologia bancaria, così come risulta dai protocolli e dalle dichiarazioni del Fondo Monetario Internazionale. Questa istituzione, fondata ufficialmente nel 1946 per accordi già presi nei due anni precedenti, ha costituito sin dall'inizio un tempio del lobbying bancario, dato che da sempre tutto il suo personale dirigente proviene dalle grandi banche d'affari internazionali.
Un saggio storico del 1975, "I Limiti della Potenza Americana" di Joyce e Gabriel Kolko, illustrava vari documenti del FMI e consentiva di riscontrare che le "misure di risanamento" proposte ed imposte nel 1946 erano le stesse di adesso: pareggio di bilancio, privatizzazioni e libertà di licenziamento. Anche allora la libertà di licenziamento veniva presentata come una misura per la crescita, poiché la disoccupazione era spacciata come condizione indispensabile per aumentare i livelli di produttività; mentre in realtà la disoccupazione serve solo ad aumentare i livelli di indebitamento delle masse. Queste misure furono imposte dal FMI anche al governo laburista che c'era allora in Gran Bretagna.[5] A scompaginare le pretese del FMI intervenne l'esasperarsi delle guerra fredda. L'anticomunismo pretestuoso e propagandistico del periodo 1947/1948 prese improvvisamente corpo e concretezza nel 1949 con l'ascesa di Mao in Cina, e con la guerra di Corea nel 1950, che comportò uno scontro diretto tra Cina ed USA. Nel 1954 i comunisti vinsero anche in Vietnam, ed allora le oligarchie occidentali provarono davvero paura. La minaccia dell'espansione del blocco comunista determinò quindi la necessità di reperire consenso sociale in Occidente. Grazie al feticcio del pareggio di bilancio i banchieri possono tenere in ostaggio il debito degli Stati, ma sotto la spinta della minaccia comunista negli anni '50 il feticcio fu messo da parte, e si aprì così la strada al compromesso socialdemocratico che ha retto sino agli anni '70. Gli storici si sono incaricati di costruire il mito del piano Marshall per giustificare lo sviluppo dell'Europa, ma, in base ai programmi ufficiali del FMI, quello sviluppo non era affatto previsto. Caduta venti anni fa la remora della guerra fredda, il lobbying bancario non solo si è ripresentato negli stessi termini del 1946, ma non ha trovato più nessun contrasto a livello politico. Da venti anni la NATO non incontra più ostacoli da parte di Russia e Cina, e può comportarsi nel mondo come la faina nella stia dei polli; quindi l'Occidente non ha più la necessità di cercarsi consenso sociale con il Welfare. Non si tratta di rimpiangere un blocco comunista già eroso dall'interno dalla fame di affari e di privilegi delle sue nomenklature, ma semplicemente di constatare che ogni passo avanti dell'imperialismo comporta un automatico passo indietro delle garanzie sociali; e ciò dovrebbe far riflettere gli "equidistantisti" nel momento in cui la NATO prepara aggressioni alla Siria o all'Iran. C'è anche da osservare che sotto qualsiasi longitudine o latitudine, ed in qualunque momento storico, le ricette del FMI non cambiano mai: pareggio di bilancio, privatizzazioni, licenziamenti; e ciò va a sfatare anche il mito dei "tecnici", visto che basta la terza elementare per ripetere sempre la stessa filastrocca. 
[1]http://www.intesasanpaolo.com/scriptIbve/retail20/RetailIntesaSanpaolo/ita/prev_complem/ita_prev_complem.jsp
[2] http://archiviostorico.corriere.it/2011/dicembre/02/Mastrapasqua_rendite_integrative_avanti_piano_co_8_111202005.shtml
[3]
http://www.inps.it/portale/default.aspx?lastMenu=4923&iMenu=1&iNodo=4923%3f
[4] http://archiviostorico.corriere.it/2011/ottobre/02/Pensioni_Salvate_dai_Precari_co_9_111002009.shtml
[5]
http://www.ibs.it/code/9788806423902/kolko-gabriel/limiti-della-potenza.html

http://www.comidad.org/dblog/default.asp

03 dicembre 2011

LA FINE DEL PENSIERO UNICO

Cristiano Lucchi intervista Roberta Carlini di Sbilanciamoci. Introduce Ornella De Zordo

La grande crisi ha portato via con sé parecchie certezze: milioni di posti di lavoro, case, mutui, pensioni, sanità, scuole e università. Ma anche il mito della stabilità e della crescita come elementi naturali del sistema oltre al castello di carte dell'economia finanziaria e a un bel pezzo dell'economia reale. La grande crisi ha chiuso anche con una certa concezione dell'economia, con quel pensiero unico che ha dominato la politica, culturale e accademica negli ultimi trent'anni. Roberta Carlini, giornalista dell'Espresso, coordina il sito di informazione economica www.sbilanciamoci.info. Ha pubblicato "L'economia del noi". Un viaggio in sei tappe (consumo, credito, casa, imprese, rete) nell'Italia che ha imparato a condividere.
Il terzo appuntamento del ciclo d’incontri organizzato dalla lista di cittadinanza perUnaltracittà e da DemocraziaKmZero per approfondire i temi della crisi economica e finanziaria, si è svolto sabato scorso con l’intervista di Cristiano Lucchi a Roberta Carlini. Un percorso che continuerà mercoledì 7 dicembre alle ore 16,30 con gli interventi di Pier Luigi Cervellati, Giovanni Maffei Cardellini e Daniele Vannetiello che ha curato il volume: “Dove va l’urbanistica”. A seguire, martedì 13 dicembre, sempre alla stessa ora, Cristiano Lucchi e Gianni Sinni ci guideranno alla conoscenza della loro ultima fatica realizzata a quattro mani: “Autopsia della politica italiana”. Insomma, un dicembre che sia annuncia come preludio ad un 2012 ancora più ricco (…almeno di appuntamenti!!).

Roberta Carlini si presenta come una delle voci più autorevoli delle tante forme ed espressioni assunte dalla sinistra italiana. Aperta, plurale, problematica e critica, si fa portatrice di un insolito crogiolo di esperienze e vissuti diversi. Una sensibilità poliedrica che anima anche l’ultimo suo libro: L’economia del noi. L’Italia che condivide (2011, Laterza). Un viaggio in quella parte della società italiana che ricerca “soluzioni comunitarie e partecipate ai problemi economici”. Un’inchiesta, un testo anti-teorico, una cascata di buone pratiche e di percorsi condivisi. L’autrice permea tutto il suo argomentare attorno alla dicotomia io/noi. In contrapposizione all’homo oeconomicus, che agisce in ogni ambito della propria esistenza (dall’acquisto di un bene alle scelte politiche) con la sola finalità della massimizzazione dell’utilità attesa, emerge e si rafforza un soggetto che insegue criteri altri: “reciprocità, solidarietà, socialità”. Un’Italia poco conosciuta, animata dalle innumerevoli esperienze delle comunità resistenti sorte nel deserto sociale generato dall’avanzata neo-liberista e nello svuotamento di senso che il populismo di destra ha operato sul concetto nobile di politica, intesa come mezzo supremo di inclusione e partecipazione. Una rete vasta ed eterogenea che ha saputo superare la nicchia ristretta nella quale viene spesso collocata. Le sue parole d’ordine hanno infatti trovato ascolto in un pubblico vasto, i media mainstream hanno agito come cassa di risonanza imponendo così nuove issues nell’agone pubblico che, almeno in parte, sono state recepite e catturate dalle strutture di potere esistenti. Tale processo, apparentemente virtuoso, celerebbe però numerosi rischi. Come scriveva Herbert Marcuse: “Come possono protesta e rifiuto trovare la parola giusta quando gli organi dell’ordine costituito ammettono che la pace consiste realmente nel trovarsi sull’orlo della guerra? Quando la linea etica di una banca è la speculazione più bieca?” (corsivo nostro). Le oltre trentacinque esperienze raccontate da Roberta Carlini nel suo viaggio si raggruppano in cinque grandi categorie: consumo, credito, case, imprese, web. Un’esplorazione di una terra semi-sconosciuta che reca l’invito a ricercare soluzioni diverse rispetto al paradigma dominante, a sostituire “la condivisione alla divisione, la cooperazione alla frammentazione”. Un agire collettivo che diventa prassi politica nella partecipazione che si contrappone al silenzio sceso nelle piazze delle nostre città, nello strepitare convulso delle discussioni assembleari come unica medicina al fruscio cadenzato delle televisioni costantemente accese. L’autrice immagina che questi gruppi resistenti ed auto-organizzati potrebbero in futuro invadere la scena politica con le loro soluzioni e il loro agire, generando così un cortocircuito virtuoso tra impegno personale e rappresentanza politica: due binari che continuano, almeno per ora, a correre desolatamente paralleli senza incontrarsi.

Nella seconda parte dell’incontro, le domande di Cristiano Lucchi conducono Roberta Carlini lungo gli altri sentieri che l’ex vice-direttrice de Il Manifesto percorre nelle molte attività svolte: giornalista, coordinatrice del sito di informazione economica sbilanciamoci.info, caporedattrice di ingenere.it. Proprio l’uscita pochi giorni prima del nostro incontro della tradizionale contro-manovra finanziaria di Sbilanciamoci!, si presenta come l’occasione per addentrarci nei temi della stringente attualità. Nonostante le difficoltà dovute alle quattro manovre varate dalla scorsa estate, anche quest’anno Sbilanciamoci! mostra come sia possibile una finanziaria completamente diversa, pur accettando le medesime compatibilità del bilancio pubblico. In estrema sintesi, la dimostrazione lampante di come sia possibile compiere scelte profondamente diverse pur rimanendo all’interno dello stesso sistema di produzione. La contro-manovra ricava infatti le risorse necessarie al bilancio statale dalla cancellazione delle spese per le Grandi Opere, dalla soppressione dei finanziamenti alle scuole private, dai tagli alle risorse destinate alle spese militari e all’acquisto degli ormai famosi F-35 (non citando ad esempio la necessaria lotta all’evasione in quanto si basa su azioni che già oggi potrebbero essere messe in atto senza previsioni incerte e futuribili). Un progetto che mostra esplicitamente come siano i rapporti di forza in seno alla società a determinare le scelte della politica economica,sgombrando il campo da qualsiasi pretesa di necessità oggettiva. Secondo Roberta Carlini, la crisi economica e finanziaria che stiamo attraversando, paragonabile per gravità e virulenza solamente a quella del 1929, non permette solo alle classi egemoni di attaccare i diritti e i salari delle classi lavoratrici attraverso il falso mito dei sacrifici comuni. Infatti, nella “macelleria sociale” che il governo Monti sventola come “rigore, crescita, equità”, si cela anche una questione di genere. I tagli nel pubblico impiego, settore dove è alta l’occupazione femminile, collegandosi con quelli alla spesa pubblica, che generano indirettamente un aumento del lavoro non retribuito per le donne italiane, delineano un nuovo avanzamento delle differenze tra i generi in un Paese tradizionalmente già lontano dagli standard europei. Roberta Carlini, richiamando criticamente la proposta di “aliquote rosa” di Alberto Alesina e Pietro Ichino, un tema ripreso anche da Matteo Renzi, offre ad Ornella De Zordo la possibilità di ricordare l’allegra gestione del bilancio comunale dell’attuale amministrazione. Una giunta così prodiga di slogan e buoni propositi per la Firenze del 2020, da scordarsi l’avvicinamento del nostro Comune al rischio di commissariamento. Strabismi della politica-evento, che forse comincia a stancare anche i più accaniti sostenitori: Firenze 20vénti si chiude infatti con una partecipazione di pubblico alquanto limitata. Speriamo solo che sia il preludio ad un cambiamento radicale del vento in città.

Gianni Del Panta- perunaltracittà




24 novembre 2011

15 novembre 2011

ASSEMBLEA DEI SOCI
DEL
FONDO ETICO E SOCIALE DELLE PIAGGE
 
SABATO 26 NOVEMBRE 2011 alle ore 17,30


Centro Sociale “IL POZZO”
via Lombardia, 1/p tel. 055373737

 


L'Assemblea è aperta a tutte le persone interessate

alla fine dell’assemblea chi lo desidera potrà cenare insieme
sono graditi contributi eno-gastronomici da condividere
siamo tutti invitati a portarci piatto, posate e bicchiere

02 novembre 2011

Progetto Piccoli Prestiti Piagge


1.     Obiettivo

Il Progetto Piccoli Prestiti Piagge è una lente di ingrandimento sui bisogni del quartiere. Esso nasce dal Fondo Etico e Sociale delle Piagge per dare adeguate risposte a richieste di prestiti di entità minima garantendo efficienza e leggerezza organizzativa.

Il Progetto Piccoli Prestiti si avvale dello strumento del micro-credito, il quale si basa sulla fiducia che viene data alle persone prive di garanzie materiali per la restituzione del credito concesso ma che hanno idee e volontà di realizzare percorsi significativi per sé e per gli altri. Il micro-credito è dunque inteso non solo come puro strumento finanziario ma anche con l’intento di sostenere legami e vincoli più forti all’interno della comunità locale, in quanto la partecipazione allo sviluppo del benessere è collettiva e la coesione sociale un importante obiettivo da raggiungere.

La tipologia di credito del Progetto Piccoli Prestiti evidenzia un’attenzione particolare verso i micro bisogni e le necessità impellenti delle persone che richiedono prestiti di piccola entità. Tali prestiti sono spesso troppo onerosi da gestire da un punto di vista formale e burocratico attraverso il Fondo Etico e Sociale delle Piagge, da qui la necessità di creare un organismo capace di lavorare in modo autonomo per rispondere tempestivamente e in modo creativo alle esigenze del territorio.



2.     A chi si rivolge

Il Progetto Piccoli Prestiti è rivolto alle persone che abitano nel quartiere Le Piagge e che hanno compiuto il diciottesimo anno di età.

Il Progetto Piccoli Prestiti crede nella valorizzazione delle capacità del singolo individuo che agisce in modo creativo sul territorio, nella sua responsabilizzazione nella restituzione del prestito affinché altri possano usufruire degli stessi benefici e nella partecipazione attiva alle attività di micro-credito di cui lo stesso ha beneficiato.



3.     Entità del prestito

Fino a 500 euro.



4.     Modalità del prestito

Le persone che intendono usufruire del micro-prestito devono scrivere una lettera di richiesta nella quale indicano l’importo, la motivazione e la persona del quartiere, possibilmente non un familiare, che li sosterrà nella richiesta di prestito e fungerà da “accompagnatore relazionale”.  La lettera verrà letta da un gruppo di persone della Commissione, le quali valuteranno la situazione in modo attento. L’erogazione del prestito avviene dopo uno o più incontri con alcuni membri della Commissione, la quale si prende il tempo necessario per decidere. Una volta accettata la richiesta di prestito è necessario che una persona della Commissione faccia da referente oppure si occupi di trovare il referente. Al fine di rendere le diverse attività della comunità partecipi dell’iniziativa e responsabili di questo progetto, il referente scelto da ciascuno dovrà essere parte di una delle attività in cui si impegna chi lo sceglie.

L’importo delle rate con cui sarà restituito il prestito viene deciso insieme alla persona che lo richiede e la restituzione dovrà comunque avvenire entro massimo 2 anni.

Le richieste vengono ordinate cronologicamente per data di arrivo, all’interno di questo ordine il Progetto Piccoli Prestiti riserva una corsia preferenziale ai bisogni legati allo studio e alla formazione culturale della persona.

Il prestito non è gravato da alcun interesse.

La persona che richiede un prestito ha l’opportunità di diventare socio del Fondo Etico. Dell’ultima rata della restituzione del prestito 25 euro vengono utilizzati per aderire con una quota al Fondo Etico e Sociale delle Piagge. La quota di adesione è infatti di 25 euro. Per far rientrare la suddetta quota da mettere a disposizione per attuare altri prestiti, la Commissione si impegna ad organizzare uno o due eventi l’anno cercando di coinvolgere il maggior numero di persone che hanno ricevuto un prestito.  

La persona che ha già ricevuto un prestito può richiederne un altro solo quando il precedente sia stato completamente estinto.

Ad ogni assemblea del Fondo Etico e Sociale delle Piagge la Commissione del Progetto Piccoli Prestiti informerà tutti i soci sui prestiti erogati e gli stessi verranno riportati sul Fondo Informa.

5.     Disponibilità

10.000,00 euro messi a disposizione dal Fondo Etico e Sociale delle Piagge. Per scelta i soldi verranno depositati in un libretto di risparmio postale.

6.     Composizione della Commissione

1-2 persone della Commissione del Fondo Etico

1 persona dell’attività scuola

1 persona della Cooperativa Il Pozzo

1 persona della Cooperativa Equazione

1 persona referente della Comunità

1 persona della Cooperativa Il Cerro

1 persona del GASP (Gruppo d’Acquisto Solidale Piagge)

1-2 persone che hanno usufruito di un piccolo prestito

1 persona di età inferiore ai 25 anni

13 ottobre 2011

26 settembre 2011

18 settembre 2011

ASSEMBLEA DEI SOCI
DEL
FONDO ETICO E SOCIALE DELLE PIAGGE

SABATO 24 SETTEMBRE 2011 alle ore 17,00

Centro Sociale “IL POZZO”
via Lombardia, 1/p tel. 055373737



L'Assemblea è aperta a tutte le persone interessate

alla fine dell’assemblea chi lo desidera potrà cenare insieme
sono graditi contributi eno-gastronomici da condividere
siamo tutti invitati a portarci piatto, posate e bicchiere

20 agosto 2011

Una manovra disperata, iniqua e senza futuro




“Una manovra disperata, iniqua e senza futuro”, questo il giudizio della campagna Sbilanciamoci! sulla manovra del governo varata lo scorso 14 agosto. E’ una manovra che non rilancia l’economia, non aggredisce strutturalmente il problema del debito, non colpisce i privilegi, mentre si accanisce ulteriormente contro i lavoratori, i pensionati, i cittadini. Il taglio di quasi 10 miliardi di euro ai trasferimenti verso gli enti locali comporterà la chiusura di molti servizi sociali e l’aumento dei tributi locali. Al provvedimento del governo, Sbilanciamoci! contrappone una sua contromanovra da 60 miliardi, 30 da destinare alla riduzione del debito e 30 al rilancio dell’economia, alla difesa dei redditi , al welfare, alla protezione dei più deboli, alla scuola e all’università. L’introduzione di una tassa patrimoniale, una sovrattassa del 15% sui capitali evasi e beneficiati dallo scudo e la riduzione del 20% delle spese militari, queste le proposte principali sul fronte delle entrate e di riduzione di spesa.
Scarica la versione integrale della Contromanovra

Una manovra iniqua ed economicamente devastante

di Vladimiro Giacché

su l'Ernesto Online del 17/08/2011


La manovra ferragostana del governo Berlusconi-Tremonti da 50 miliardi di euro e' peggiore delle previsioni più pessimistiche.
Per quello che contiene e per quello che non contiene.

Ecco quello che contiene:

ATTACCO AL SALARIO E AI DIRITTI DEL LAVORO
La manovra contiene innanzitutto un attacco al salario e ai diritti del lavoro dipendente di portata inedita, che si può sintetizzare come segue:

Attacco al salario

1. Tagli al salario diretto dei dipendenti pubblici. I dipendenti delle amministrazioni pubbliche che non rispettano gli obiettivi di riduzione della spesa perderanno il pagamento della tredicesima mensilità.
2. Tagli al salario indiretto di tutti i lavoratori. Questo e' il risultato inevitabile della riduzione di 6 miliardi di trasferimenti dallo Stato agli Enti Locali per il 2012 e per 3,5 miliardi nel 2013, come pure dell'incentivo alla privatizzazione dei servizi pubblici locali (a questo riguardo si usa a sproposito il termine di "liberalizzazione", ma si tratta di una mistificazione in quanto la gran parte di questi servizi sono monopoli naturali). Lo stesso effetto avranno, almeno in parte, i tagli ai Ministeri per 6 miliardi nel 2012 e per 3,5 miliardi nel 2013. E anche la soppressione delle province sotto i 300.000 abitanti e la fusione dei comuni sotto i 1000 abitanti. E' infatti certo che queste misure si tradurranno in minori servizi o servizi più cari per i cittadini. Oltretutto va ricordato che i lavoratori e i pensionati sono già stati colpiti a luglio dai tagli sulle deduzioni fiscali , sulle indennità assistenziali, sugli asili e su altri servizi che in particolare i Comuni dovranno ridurre.
3. Tagli al salario differito dei lavoratori. Per i lavoratori pubblici questo avverrà tramite il pagamento con due anni di ritardo (e senza interessi) dell'indennità di buonuscita. Per tutti i lavoratori questo e' il risultato dei previsti interventi disincentivanti per le pensioni di anzianità (con anticipo al 2012 del requisito di 97 anni tra eta' anagrafica e anni di contribuzione). Infine, un segnale di attenzione specifico nei confronti delle donne: viene anticipato dal 2020 al 2015 l'inizio del progressivo innalzamento a 65 anni dell'età pensionabile per le donne del settore privato.

Attacco ai diritti del lavoro

1. La manovra consente di derogare a livello aziendale a quanto previsto dai contratti nazionali su "mansioni, classificazione e inquadramento del personale, disciplina dell'orario di lavoro, modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro" (cose in buona parte già previste dall'infelicissimo accordo firmato anche dalla CGIL il 28 giugno scorso), ma anche sul "recesso dal rapporto di lavoro", ossia sui licenziamenti, con la sola eccezione - bontà loro - del "licenziamento discriminatorio" e del "licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio". Nelle intenzioni del governo, si potrà così aggirare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori ed effettuare licenziamenti anche non per giusta causa.
2. C'e inoltre (art. 8, par. 3 del decreto legge della manovra) anche un avallo postumo ai colpi di mano della Fiat su Pomigliano e Mirafiori che sinora – va detto – non hanno granché giovato alle sorti della ex casa automobilistica italiana, con vendite e quotazioni azionarie in caduta libera (evidentemente le bastonate ai lavoratori non sono un colpo di bacchetta magica che risolve i problemi aziendali).
3. Infine, per quanto riguarda il pubblico impiego, viene introdotta la libertà di trasferimento del personale anche in altra città, e l'assegnazione a mansioni superiori e di maggiore responsabilità a parità di stipendio.

ATTACCO ALLA DEMOCRAZIA
1. La manovra forza la privatizzazione dei servizi pubblici locali. Questo rappresenta una evidente violazione della volontà popolare, che si e' espressa di recente con assoluta chiarezza nei due referendum sull'acqua. Anche questo e' gravissimo.
2. Il continuo richiamo degli esponenti del governo alla "lettera della Bce" – inviata al governo in occasione del tracollo dei titoli di Stato ad inizio agosto e contenente le misure urgenti da adottare, probabilmente in qualche caso strumentale e finalizzato a scaricare su qualcun altro le colpe delle parti più inaccettabili della manovra – pone l'accento su due inquietanti novità dell'attuale situazione: a) la perdita della sovranità nazionale su scelte politiche di fondamentale importanza, per di più a favore di organismi non eletti ma nominati (come appunto è la Bce; ma il discorso non sarebbe sostanzialmente differente per la Commissione Europea); b) il ritorno agli arcana imperii della diplomazia segreta: infatti dei contenuti di questa lettera né il Parlamento italiano né l'opinione pubblica sa assolutamente nulla, oltre al fatto che esiste. Se consideriamo che gli organismi dell'Unione Europea perdono molto del loro tempo a dare lezioni di democrazia al resto del mondo, davvero non c'è male. Ma al di là di questo aspetto – diciamo così – di stile e di coerenza, è importante rilevare qualcosa di ben più importante: il tentativo dell'establishment europeo di sottrarre al libero dibattito e alla pubblica discussione le scelte di politica economica cruciali rispetto alla crisi in atto. Tra ukase segreti e presunti "percorsi obbligati per il risanamento dei conti pubblici", i provvedimenti economici dei governi acquisiscono un'aura di obbligatorietà e di inevitabilità: escono dalla sfera delle scelte politiche e divengono presunte necessità dettate da tecnocrazie infallibili e super partes. Si tratta di una mistificazione che va combattuta con la massima energia: non ci sono misure necessarie. E la stessa riduzione del debito via austerità è una scelta politica e di classe che va contrastata con forza. Nel caso italiano, come vedremo più avanti, essa è non soltanto iniqua ma dannosa per le stesse sorti della nostra economia.

ATTACCO AI SIMBOLI DEL LAVORO E DELL'ITALIA ANTIFASCISTA E REPUBBLICANA
L'abolizione delle festività laiche (25 aprile, 1 maggio e 2 giugno) non ha alcun significativo effetto sull'aumento della produzione e del prodotto interno lordo. Ha invece un significato simbolico da non sottovalutare: è la cancellazione di date simbolo – e con ciò un attacco ai valori fondanti – dell'Italia repubblicana e antifascista. Non stupisce che una forza politica secessionista e antinazionale come la Lega e un Pdl che sempre più chiaramente si pone come forza politica di riferimento della peggiore feccia fascista di questo Paese tentino questo affondo. La cui giustificazione "europea" è in questo caso particolarmente falsa e pretestuosa (si provi anche soltanto ad immaginare l'eliminazione del 14 luglio in Francia). Del resto, non si può che apprezzare la coerenza della manovra sul punto: è perfettamente conseguente, dopo aver colpito il lavoro e la democrazia, calpestarne le date simbolo.

Dopo aver visto quello che la manovra contiene, passiamo ad esaminare quello che non contiene:

NIENTE CONTRO L'EVASIONE FISCALE
1. In una manovra da 50 miliardi di euro, e in presenza di un'evasione fiscale che annualmente sottrae gettito per 120 miliardi di euro, le maggiori entrate previste in relazione alla lotta all'evasione ammontano a meno di 1 miliardo di euro.
2. Anche questa ridicola cifra è in realtà presunta, perché nessuna delle misure contenute in manovra appare in grado di incrementare significativamente il contrasto all'evasione (la stessa tracciabilita' delle transazioni superiori ai 2.500 euro è molto meno efficace della soglia introdotta dal governo Prodi II e soppressa come primo atto di questo governo). La verità è che nel caso della lotta all'evasione è evidente l'intento del governo di non colpire la propria base sociale: quella piccola e media borghesia parassitaria che costituisce ormai da decenni la vera palla al piede dello sviluppo economico italiano.

NESSUNA TASSAZIONE DEI GRANDI PATRIMONI
1. La manovra non prevede alcuna tassazione dei grandi patrimoni.
2. Lo stesso prelievo di solidarietà del 5% oltre i 90.000 euro di reddito e del 10% oltre i 150.000 euro, oltre ad essere edulcorato in vari modi (deducibilita' fiscale parziale, pagamento solo sino al raggiungimento del tetto massimo di aliquota del 48%), non può essere considerato una vera e propria patrimoniale, e si rivolge ad una platea molto ristretta di contribuenti: essenzialmente lavoratori dipendenti ad alto reddito.
3. Come se non bastasse, su questa tassazione, e solo su questa, una parte del Pdl, su probabile istigazione dello stesso Berlusconi, sta inscenando delle barricate che serviranno ad abbandonare questa misura, magari in cambio di un aumento delle tasse indirette (che per loro natura non sono progressive).

NESSUNA MISURA PER LA CRESCITA
1. La manovra non contiene nessuna misura né per la crescita economica né per l'incremento della produttività totale dei fattori che è il vero nodo di fondo della perdita di produttività che contraddistingue il nostro Paese da oltre un decennio. Ecco le misure essenziali per la crescita che nella manovra non ci sono:
2. Investimenti in: a) formazione di base e universitaria (questo governo li ha drasticamente ridotti); b) ricerca e sviluppo tecnologico (idem come sopra); c) infrastrutture utili (a questo governo interessano solo quelle inutili, come ponte sullo Stretto e Tav in Piemonte, mentre tutti gli altri investimenti infrastrutturali sono bloccati);
3. Riordino delle agevolazioni pubbliche alle imprese, che oggi costano decine di miliardi e sono fonte di infiniti sprechi e ruberie. Le agevolazioni oggi in essere andrebbero drasticamente ridotte, a favore di incentivi che favoriscano la concentrazione industriale (il nanocapitalismo italico, favorito dall'evasione fiscale, è diventato uno dei vincoli più gravi allo sviluppo) e gli investimenti in ricerca e innovazione da parte delle imprese private italiane (che da questo punto di vista sono il fanalino di coda in Europa).
4. Restituzione allo Stato di compiti di orientamento dell'economia e ricostruzione di un forte settore pubblico dell'economia.
5. Si può osservare che nulla di tutto questo è contenuto nella manovra governativa. Ed è abbastanza logico che non possa concepire un ampliamento del ruolo dello Stato nell'economia un governo a guida Berlusconi-Tremonti (a dispetto del colbertismo verbale di quest'ultimo). Ma va notato che praticamente su ognuno di questi punti la manovra contiene dei passi indietro: prosegue l'attacco al pubblico impiego anche nel settore fondamentale della formazione, il sistema agevolativo pubblico e' imbalsamato nella sua inefficienza, e al settore pubblico vengono tolte ulteriori leve con la privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali.

IL RISULTATO: UNA RICETTA PER IL DECLINO
1. L'unica vera cura per il debito (sia esso pubblico o privato) è la crescita economica. Da questo punto di vista, politiche di austerita' che comprimano una o più componenti del salario (diretto, indiretto o differito) avranno un effetto depressivo sulla domanda interna e quindi anche sulla crescita. Questo avrà un duplice effetto negativo sul rapporto debito/pil: da un lato, siccome il denominatore (il pil) diminuirà, quel rapporto peggiorerà, a meno che il numeratore (il debito) non scenda ancora di più (cosa impossibile); dall'altro, i vantaggi delle stesse politiche di austerità dal punto di vista della riduzione del deficit annuale (e quindi dell'accumulo di stock di debito) saranno vanificati per il semplice fatto che la diminuzione del pil ridurrà le entrate fiscali ordinarie.
2. L'Italia è un Paese che soffre da anni di una crescita insufficiente e di seri problemi di competitività derivanti, da un lato, da investimenti in infrastrutture e in formazione e ricerca molto inferiori a quelli dei principali competitori, dall'altro, da una dimensione d'impresa inadeguata a reggere il confronto internazionale (in termini di economie di scala, organizzazione del lavoro, capacita' d'investimento in innovazione). Se gli investimenti pubblici diminuiscono e se la dimensione d'impresa resta quella attuale, il risultato sarà ovviamente un'ulteriore perdita di competitività sui mercati internazionali e quindi di quote sull'export internazionale.
3. La manovra da un lato deprime i consumi e quindi la domanda interna, dall'altro non programma alcun investimento pubblico e non colpisce uno dei motivi fondamentali del nanismo dell'impresa italiana, ossia il ricorso all'evasione fiscale.
4. Il risultato è obbligato: calo del pil dovuto alla debolezza della domanda interna e contemporaneamente alla perdita di ulteriori quote del commercio internazionale, che aggraverà un deficit della bilancia commerciale già pesante. E quindi insostenibilità del debito pubblico nel medio-lungo periodo. È possibile che gli operatori sul mercato dei titoli di Stato questi conti se li facciano e votino contro la manovra vendendo Btp. È anche possibile che invece condividano i dogmi della Bce o addirittura abbraccino le teorie dell'"austerità espansiva" (che pochi mesi fa e' stata confutata da una ricerca dello stesso Fondo Monetario Internazionale) e quindi non continuino a vendere Btp. In questo secondo caso la situazione del nostro debito non peggiorerà subito, ma soltanto nel medio-lungo periodo. Non è una grande consolazione. Ma con questa manovra è la cosa migliore che ci possa capitare.

CONCLUSIONE
1. La manovra Berlusconi-Tremonti non è soltanto iniqua: è devastante tanto per i bilanci di milioni di famiglie, quanto per le sorti della nostra economia e per la stessa sostenibilità del nostro debito pubblico. Con essa il declino economico del nostro Paese, che in questi anni è andato di pari passo con una crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito, rischia di diventare irreversibile.
2. È comprensibile che questo non risulti chiaro a un ceto imprenditoriale e a un ceto politico, italiano ed europeo, che non riescono a concepire alcun recupero di competitività che non passi per la strada esclusiva della riduzione del salario e del potere contrattuale dei lavoratori; e che non vede strada diversa, per la riduzione del debito accumulato dalle economie europee (tutte, in misura maggiore o minore), dal fatto che tale debito sia pagato dai lavoratori. Questo è anche il senso profondo della delirante proposta, rilanciata dalla strana coppia Merkel-Sarkozy, di inserire in tutte le costituzioni del pareggio di bilancio.
3. Ma proprio su questo si misura l'assoluta inadeguatezza della classe dominante europea e del ceto politico che la rappresenta. Per colmo d'ironia, la proposta di costituzionalizzare il pareggio di bilancio è stata ribadita nello stesso giorno in cui i dati ufficiali dell'economia tedesca hanno evidenziato che nel secondo trimestre di quest'anno la Germania non e' cresciuta: ossia nel preciso momento in cui è emerso con chiarezza che il destino economico della Germania (le cui esportazioni sono per il 63,5% dirette ad altri Paesi dell'Unione Europea) è legato a doppio filo alle sorti dei Paesi che le politiche europee stanno costringendo a politiche deflative e di violenta compressione dei consumi.
4. Lo scenario che si prospetta se, come sembra, si procederà nella direzione scellerata intrapresa da oltre un anno, è quindi il seguente: a) politiche depressive antidebito che in realtà massacrano le economie interessate e per questa via conducono all'insolvenza dei relativi debiti sovrani; b) fallimenti bancari a catena a causa del forte deprezzamento/svalutazione dei titoli di Stato in portafoglio; c) prosecuzione dell'effetto domino delle crisi del debito, con la Francia come prossima tessera a cadere; d) crisi finanziaria e industriale anche in Germania a causa del crollo del valore dei titoli di Stato posseduti dalle banche tedesche da una parte, e a causa del crollo dell'export infraeuropeo dall'altra; e) fine dell'euro a causa della divergenza non più sanabile tra le economie dell'eurozona, nel contesto di una depressione generalizzata.
5. È importante notare che il processo di compressione dei redditi da lavoro e contemporanea distruzione del welfare non si sta verificando solo in Europa. Con riferimento alla situazione degli Stati Uniti, Nouriel Roubini, intervistato il 12 agosto scorso dal Wall Street Journal, ha osservato: "Negli ultimi due o tre anni, in effetti abbiamo avuto un peggioramento della situazione a causa di una massiccia redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale, dai salari ai profitti, di un'accresciuta disuguaglianza. Il punto è che le famiglie hanno maggiore propensione a spendere delle imprese... E quindi questa redistribuzione del reddito e della ricchezza ha ulteriormente aggravato il problema dell'insufficienza della domanda aggregata". Roubini da ciò ha tratto una conclusione tanto più significativa trattandosi di un economista non marxista: "Karl Marx aveva ragione. A un certo punto, il capitalismo può autodistruggersi. Non si può trasferire all'infinito reddito dal lavoro al capitale senza avere come risultato capacità produttiva in eccesso e carenza di domanda aggregata. Ma è successo proprio questo. Pensavamo che i mercati funzionassero. Non stanno funzionando."
6. La conclusione che si può trarre da tutto questo è duplice. A) Le strategie anticrisi che si vanno attuando in tutto l'Occidente capitalistico per risolvere la crisi peggiore dopo il 1929 non fanno che aggravarla. B) Per quanto riguarda più in particolare la manovra Berlusconi-Tremonti avallata dall'establishment dell'Unione Europea, opporsi ad essa è oggi l'unico modo per difendere non soltanto gli interessi di chi lavora, ma anche le prospettive dell'economia italiana. L'alternativa è un declino irreversibile e in prospettiva anche la fine della nostra unità nazionale, stritolata dalla guerra tra poveri per accaparrarsi le ultime briciole del welfare. Ricordiamocene, quando verranno a chiederci di accettare questa manovra indecente, iniqua e devastante in nome di "superiori interessi nazionali".

(17 agosto 2011)

28 luglio 2011

Di cosa abbiamo bisogno?

La felicità è ormai assimilata al consumo. Mai nel
corso della storia è stata prodotta tanta ricchezza,
ma l’80% delle risorse del pianeta vengono consumate
dal 20% della popolazione. L’economia vuole
che facciamo del consumo il nostro stile di vita,
bisogna consumare sempre di più, siamo la civiltà
dell’«usa-e-getta». Gli specialisti del marketing
si sforzano di venderci sempre più oggetti inutili,
di far credere ai consumatori che l’accumulazione
materiale è un fine in sé. Tutto quanto favorisce la
crescita è buono: anche la guerra favorisce la crescita,
dunque la guerra è una buona cosa!
Lo sviluppo sostenibile cerca di conciliare la crescita
economica e il rispetto dell'ambiente, quando
nei fatti la crescita economica è uno dei principali
fattori di distruzione del nostro ambiente. Il termine
di «sviluppo sostenibile» è una semplice azione di
recupero di industriali e di ecologisti benpensanti
per fare del «green business». Meglio imparare a
convivere con il nostro ambiente, che distruggerlo.
Occorre lottare per una società in cui i rapporti
umani siano superiori ai rapporti mercantili!
Bisogna riflettere sul ruolo di ognuno nella società.
La decrescita è un insieme di idee anti-produttivistiche,
anti-consumistiche ed ecologiche. È anche
l’idea di produrre ciò che è veramente utile, e tralasciare
le attività socialmente inutili. Occorre sviluppare
le attività socialmente vitali (acqua, energia,
salute, educazione, trasporti...) nel quadro di un
servizio pubblico universale. Occorre lasciare che i
paesi del sud del mondo sviluppino le coltivazioni
di prodotti alimentari locali a scapito delle coltivazioni
di esportazione. Occorre ridurre i trasporti di
merci relocalizzando le industrie. Occorre un’agricoltura
di prossimità, senza OGM, senza pesticidi e
rispettosa della natura. La cultura e lo sport devono
essere fonti di espansione e non di arricchimento.
La decrescita propone anche di diminuire l'impronta
ecologica delle nostre società. Una società
che consuma sempre di più non può rispettare l’ambiente
e esaurisce presto o tardi le risorse essenziali
per la vita. Non può esserci crescita infinita su un
pianeta finito. Non si tratta di vivere nelle privazioni
o nella frustrazione. Vivere semplicemente
significa non soccombere alle tentazioni inutili e
resistere al diktat delle mode. Significa vivere con
meno, significa essere responsabili. Ma significa
anche comprendere che la nostra bulimia degli
acquisti è il riflesso di un malessere, di una insoddisfazione,
generati appunto da questa società detta
dell’abbondanza. Possedendo più beni materiali,
siamo forse più felici? Al termine della vita, la vera
ricchezza è il vuoto che si lascia e non i beni che si
tramandano!
Occorre far decrescere tutte le attività inutili che il
capitalismo, trascinato dalla sua logica del profitto,
è riuscito a imporre come unico modello. Lo scopo
finale non è di creare delle ricchezze o degli impieghi,
è semplicemente di soddisfare i bisogni della
popolazione, a scapito di una minoranza di ultraricchi,
che per una volta dovrà piegarsi all’interesse
generale. La crescita, dogma del sistema capitalista,
ci trascina verso una crisi ecologica maggiore e la
sola soluzione a questa crisi è rompere con il capitalismo.
Ogni altra soluzione alternativa per gestire
il sistema è solo polvere negli occhi.

di Coscienza Cittadina Responsabile
(http://2ccr.unblog.fr - Traduzione dal francese di barb@nar - voce libertaria

14 luglio 2011

07 luglio 2011

La doppia impostura della «ripresa»

di SERGE LATOUCHE

Introduzione
Che cosa è la «ripresa»? E’ in sostanza quel che è stato proposto al vertice (G8 / G20) di Toronto, un programma che contiene allo stesso tempo sia la ripresa che l’austerità. La cancelliera tedesca Angela Merkel chiedeva una politica vigorosa di rigore e di austerità. Il presidente degli Usa Barak Obama, temendo di colpire la timida ripresa dell’economia mondiale e di quella statunitense con una politica deflazionista, chiedeva un rilancio ragionevole. L’accordo finale è stato raggiunto su una sintesi zoppicante: la ripresa controllata nel rigore e l’austerità moderata dal rilancio. Il ministro dell’economia francese Christine Lagarde, che non era ancora presidente del Fondo monetario internazionale, ha allora azzardato il neologismo «rilance» (contrazione di «rigueur e «rilance»). Con ciò sincronizzando il passo con il consigliere del presidente Sarkozy, Alain Minc, che, interrogato su quel che bisognava fare nella situazione critica provocata dalla destabilizzazione degli Stati da parte di mercati finanziari che i medesimi Stati avevano appena salvato dalla rovina, si è prodotto in questa ammirevole formula: bisogna schiacciare allo stesso tempo il freno e l’acceleratore.
In ogni modo, denunciare la doppia impostura di questo programma costituisce per me una tripla sfida.
Prima di tutto, si tratta parlare in questo luogo, nell’ambito del parlamento europeo a Bruxelles – tempio della religione della crescita – a partire da una posizione iconoclasta, la decrescita, per di più a proposito di una materia di cui non sono uno specialista, la Grecia e la crisi del debito sovrano.
Poi, si tratta di parlare in questo luogo – tempio della politica – a partire da una posizione da «scienziato» e dunque, per riprendere la distinzione e l’analisi di Weber, secondo l’etica della convinzione e non quella della responsabilità.
Infine, si tratta di sostenere un punto di vista paradossale: né rigore, né ripresa.
Rifiutare il rigore o l’austerità è una posizione sulla quale posso almeno trovare degli alleati (benché molto minoritari) sia tra gli economisti, ad esempio Fréderic Lordon, che tra i politici, come J-L Mélanchon secondo il suo attuale programma.
Rifiutare la ripresa della crescita produttivista e uscire dalla religione della crescita è una posizione ammessa da alcuni ecologisti sul lungo termine, ma del tutto esclusa nel breve termine.
E’ dunque a questa tripla sfida che cercherò di rispondere, a cominciare dai due rifiuti: quello del rigore e quello della ripresa.


Rifiutare l’austerità
La crisi greca si inscrive nel contesto più largo di una crisi dell’euro e di una crisi dell’Europa. E naturalmente di una crisi di civilizzazione della società del consumo, vale a dire una crisi che unisce una crisi finanziaria, una crisi economica, una crisi sociale, una crisi culturale e una crisi ecologica. La mia convinzione profonda è che, risolvendo la crisi dell’Europa e dell’euro, se non la crisi della civilizzazione dei consumi, si risolverà la crisi greca, ma che, tenendo la Grecia sotto trasfusione a colpi di prestiti condizionati a iniezioni sempre più massicce di austerità, non si salverà né la Grecia, né l’Europa, e si getteranno i popoli nella disperazione.
Rifiutare l’austerità presuppone prima di tutto cancellare due tabù che sono alla base della costruzione europea: l’inflazione e il protezionismo.
Il progetto della decrescita, ossia la costruzione una società dell’abbondanza frugale o della prosperità senza crescita, implica due fenomeni che hanno potuto essere gli oggetti di politiche sistematiche, nel passato: il protezionismo e l’inflazione. Le politiche tariffarie sistematiche di costruzione e ricostruzione dell’apparato produttivo, di difesa delle attività nazionali e di protezione sociale, e quelle di finanziamento del deficit di bilancio con un ricorso ragionevole all’emissione di moneta che provocasse una «gentle rise of price level» (una inflazione moderata) preconizzata da Keynes, hanno accompagnato l’eccezionale crescita delle economie occidentali nel dopoguerra, gli anni che in Francia sono stati chiamati «i trenta gloriosi». a dire il vero il solo periodo nella storia moderna in cui le classi lavoratrici hanno goduto di un relativo benessere.
Questi due strumenti sono stati banditi dalla controrivoluzione neoliberista, e le politiche che li vorrebbero prevedere sono oggi colpite da anatema, anche se tutti i governi che possono vi hanno fatto ricorso in maniera più o meno surrettizia e insidiosa.
Come tutti gli strumenti, il protezionismo e l’inflazione possono avere degli effetti negativi e perversi – e sono quelli che soprattutto si osservano oggi nel loro utilizzo nascosto (1) – ma è indispensabile farvi ricorso in modo intelligente per risolvere in modo soddisfacente, da un punto di vista sociale, le crisi attuali, ed evitare la catastrofe di una austerità deflattiva, ma anche il disastro certo di una ripresa produttivista.
Per questo oggi bisogna probabilmente uscire dall’euro, non potendo correggerlo. Bisogna riappropriarsi della moneta, che deve ritrovare il suo ruolo: servire e non asservire. Il denaro può essere un buon servitore, ma è sempre un cattivo padrone.
Notiamo per altro che la ripresa della signora Lagarde non è il rilancio produttivista di Joseph Stiglitz: è essenzialmente il rilancio dell’economia del casinò, quella della speculazione di borsa e immobiliare.
In effetti, per i governi in carica, lo slogan «sia ripresa sia austerità» significa la ripresa per il capitale e l’austerità per le popolazioni. In nome della ripresa, per altro largamente illusoria, degli investimenti e quella totalmente fallace dell’occupazione, vengono abbassati o soppressi gli oneri sociali, le imposte sulle professioni e l’imposta sugli utili delle imprese. Si rinuncia ad ogni imposizione sui super-profitti bancari e finanziari, mentre l’austerità colpisce duramente i salariati e i ceti medi e inferiori con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione (che significa concretamente la diminuzione del suo ammontare). Per completare il tutto, e preparare la mitica ripresa, si smantellano sempre più i servizi pubblici e si privatizza a tutta velocità ciò che ancora non è stato privatizzato, con una soppressione massiccia di posti di lavoro (nell’istruzione, nella sanità, ecc.).
Assistiamo a una strana corsa masochista all’austerità. Il Paese A annuncia una diminuzione dei salari del 20 per cento, allo stesso tempo il paese B annuncia che farà di meglio, con una diminuzione del 30 per cento, mentre il paese C, per non essere da meno si ingegna di aggiungere misure ancora più rigorose. Annunci per di più sommati alla pubblicità onnipresente, che incita a continuare a consumare sempre di più senza averne i mezzi e a indebitarsi senza la prospettiva di poter rimborsare il debito: bisogna in qualche modo espiare la pseudo festa del consumo pur continuando a sostenerla nella parte dei debitori.
Questa politica di austerità stupida non può che provocare un ciclo deflattivo che farà precipitare la crisi, ciò che la ripresa puramente speculativa non impedirà; e gli Stati dissanguati non potranno più, questa volta, salvare le banche a colpi di miliardi di dollari.
Questa politica non è solo immorale, ma è anche assurda. Otterremo il fallimento dell’euro, se non dell’Europa, e la catastrofe sociale.
In attesa di questa eventualità, se gli obiettori della crescita fossero incaricati di gestire gli affari della Grecia, per esempio, quale sarebbe la loro politica? Il ripudio puro e semplice del debito, ossia la bancarotta dello Stato, sarebbe una medicina da cavallo che risolverebbe il problema sopprimendolo. Tuttavia, questa soluzione radicale, che non è da escludere e avrebbe facilmente il favore dei «decrescitisti», rischierebbe di gettare il paese nel caos. Il problema è che, in effetti, in pratica la crisi dell’indebitamento degli Stati non è che una parte del problema. La risposta teorica alla sola questione del debito degli Stati che, anche per i più indebitati, è dell’ordine dell’ammontare del Pil, è per altri versi più facile a farsi di quella che concerne il trovare una soluzione per la bolla mondiale dei crediti nati dalla speculazione finanziaria (2). La minaccia di un rischio sistemico è lontana dal poter essere scartata.
Per quel che riguarda il debito pubblico, il suo annullamento rischierebbe di colpire non solo le banche e gli speculatori, ma anche direttamente o indirettamente i piccoli risparmiatori che hanno dato fiducia al loro Stato o che si sono fatti rifilare dalla loro banca, a loro insaputa, degli investimenti complessi che comprendono titoli dubbi. Una riconversione negoziata (che equivarrebbe a una bancarotta parziale), come quella che si è fatta in Argentina dopo il crollo del peso, o dopo un compromesso, come propongono Eric Toussaint e una coalizione di Ong per determinare la parte abusiva del debito, è senza dubbio preferibile. Si può anche prevedere di mantenere la quotazione dei titoli per i piccoli investitori e un deprezzamento per il 40 e il 60 per cento degli altri, o ancora ricorrere a un «haircut» fiscale (3). Per onorare il debito residuo, un aumento dei prelievi fiscali grazie a una tassa eccezionale sui profitti finanziari, come fa l’Ungheria, non sarebbe una cattiva idea, oltre che l’avvio di una fiscalità progressiva con, prima di tutto, nel caso francese l’abbandono reale dello scudo fiscale e delle nicchie scandalose.
In una società della crescita senza crescita, ossia più o meno la situazione attuale, lo Stato è condannato ad imporre ai cittadini l’inferno dell’austerità, con prima di tutto la distruzione dei servizi pubblici e la privatizzazione di quel che è ancora possibile vendere dei gioielli di famiglia. Facendo questo, si corre il rischio di creare una deflazione e di entrare nel ciclo infernale di una spirale depressiva. E’ precisamente per evitare questo che bisogna adoperarsi per uscire dalla società della crescita e di costruire una società della decrescita.


Uscire dalla religione della crescita
Di fronte a questa minaccia reale ci sono buoni spiriti, come Joseph Stiglitz, che raccomandano le vecchie ricette keynesiane del rilancio del consumo e dell’investimento per far ripartire la crescita. Questa terapia non è desiderabile. Non lo è perché il pianeta non può più sopportarla, ed è forse impossibile perché, dato l’esaurimento delle risorse naturali (in senso ampio) già dagli anni settanta, i costi della crescita (quando c’è) sono superiori ai suoi benefici. I guadagni di produttività che ci si può aspettare sono nulli o quasi nulli. Bisognerebbe privatizzare ancora e mercificare le ultime riserve di vita sociale e far crescere il valore di una massa immutata – o in diminuzione – dei valori d’uso, per prolungare solo di qualche anno l’illusione della crescita.
Tuttavia, questo programma socialdemocratico, che costituisce la missione dei partiti di opposizione, non è credibile, innanzitutto perché questi partiti non sono in grado di rimettere in questione la gabbia di ferro del quadro neoliberista che essi stessi hanno contribuito a costruire nel corso degli ultimi trent’anni, e che presuppone una sottomissione senza riserve ai dogmi monetaristi. L’esempio della Grecia è in questo abbastanza eloquente.
Si tratta di uscire dall’imperativo della crescita; altrimenti detto, di rifiutare la ricerca ossessiva della crescita. Che non è evidentemente (e non deve essere) uno scopo in sé; essa non rappresenta più il mezzo per abolire la disoccupazione (4). Bisogna tentare di costruire una società dell’abbondanza frugale, o per dirla come Tim Jackson di prosperità senza crescita.
In effetti, il primo obiettivo della transizione dovrebbe essere al ricerca del pieno impiego per rimediare alla miseria di una parte della popolazione. Questo potrebbe essere fatto con una rilocalizzazione sistematica delle attività utili, una riconversione progressiva delle attività parassitarie, come la pubblicità, o nocive, come il nucleare e gli armamenti, e una riduzione programmata e significativa del tempo di lavoro. Per il resto, è il ricorso a una inflazione controllata (diciamo più o meno il 5 per cento l’anno) quel che noi ci augureremmo. Questa soluzione keynesiana, che equivale al ricorso a una moneta complementare per stimolare l’attività economica senza per questo rientrare nella logica della crescita illimitata, faciliterebbe la soluzione dei problemi provocati dall’abbandono della religione della crescita.
Certo, questo bel programma è più facile da enunciare che da realizzare. Nel caso della Grecia, presuppone come minimo di uscire dall’euro e ristabilire la dracma, probabilmente non convertibile, con quel che questo implica: controllo dei cambi e ristabilimento delle dogane. Il necessario protezionismo di questa strategia provocherebbe l’orrore degli esperti di Bruxelles e dell’Omc. Bisognerebbe dunque aspettarsi delle misure di ritorsione e dei tentativi di destabilizzazione dall’estermo collegati al sabotaggio degli interessi lesi all’interno. Questo programma sembra perciò oggi molto utopico, ma quando saremo al fondo del marasma e della vera crisi che ci aspetta al varco sembrerà realistico e desiderabile.



Conclusione
Nella tragedia greca antica la catastrofe è la scrittura della strofa finale. Qui siamo. Un popolo vota massicciamente per un partito socialista il cui programma è classicamente socialdemocratico e, sotto la pressione dei mercati finanziari, si vede imporre una politica di austerità neoliberista da parte di quello stesso partito, che obbedisce alle ingiunzioni congiunte di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale. Rifiutare democraticamente questo diktat, quel che l’Islanda ha potuto fare, è impedito alla Grecia dall’euro. E’ chiaro che il popolo greco non accetterebbe probabilmente più, nella sua maggioranza, e comunque facilmente, le conseguenze delle rotture necessarie a un’altra politica (uscita dall’euro, disconoscimento almeno parziale del debito pubblico, messa al bando probabile da parte dell’Europa e embargo da parte dei paesi «derubati», fuga dei capitali, ecc.). Ma «il sangue e le lacrime», secondo la famosa frase di Churchill, sono già qui, purtroppo senza la speranza della vittoria. Il progetto della decrescita non pretende di fare un’economia di questo sangue e di queste lacrime, ma per lo meno apre la porta alla speranza. La sola maniera di cavarsela, noi ce lo auguriamo ardentemente, sarebbe di riuscire a fare uscire l’Europa dalla dittatura dei mercati e di costruire l’Europa della solidarietà, della convivialità, quel cemento del legame sociale che Aristotele chiamava «philia».


Note
(1) Secondo la Banca mondiale le conseguenze del protezionismo agricolo del Nord equivarrebbe a un mancato guadagno di 50 miliardi di dollari all’anno per i paesi esportatori del Sud. Il deputato verde tedesco Sven Giegold ne ha fornito un altro esempio con la politica fiscale tedesca per forzare le esportazioni.
(2) Secondo la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, in effetti, nel febbraio 2008 la creazione di prodotti derivati arrivava a 600.000 miliardi di dollari, ossia tra 11 e 15 volte il prodotto lordo mondiale! E qui, a parte il crollo, anche un «decrescitista» non ha una medicina miracolosa per un atterraggio morbido…
(3) E’ quel che ha proposto Thomas Piketti in un intervento sul giornale Libération del 28 giugno. Si tratta di far pagare alle banche una parte del rimborso del debito.
(4) Secondo il calcolo di Albert Jacquard («J’accuse l’economie triomphante», Calmann Lévy 1995 / Poche 2004, p. 63), si stima che una crescita del Pil francese del 4 per cento comporterebbe la diminuzione del tasso di disoccupazione del 2 per cento. A un tale ritmo, tra cinquant’anni il Pil sarà stato moltiplicato per sette (più 600 per cento), ma il numero dei disoccupati non si ridurrebbe che del 64 per cento. Dato che la disoccupazione, tutte le categorie incluse, riguardava nel 2010 5 milioni di persone, saremmo ancora molto lontani dal pieno impiego nel 2060, perché rimarrebbero un po’ meno di due milioni di disoccupati.

01 luglio 2011

LA CONTROMANOVRA
DI SBILANCIAMOCI
2012-2014



50 MILIARDI

PER DIFENDERE IL LAVORO,

I DIRITTI ED IL WELFARE

RILANCIARE UN'ECONOMIA

SOSTENIBILE E GIUSTA

RIDURRE IL DEBITO

La contromanovra di Sbilanciamoci!

La manovra di Tremonti varata in queste ore dal governo affossa ancora di più
il paese nella depressione economica, deprime le possibilità di ripresa
dell'economia, fa pagare alla parte più esposta del paese il peso e le
conseguenze di questa crisi. Il pareggio di bilancio del 2014 non ci è stato
imposto dall'Unione Europea. E' una scelta politica di Tremonti che in questo
mondo rischia di portare il paese ancora di più nella recessione. E' una
manovra tutta concentrata furbescamente nel 2013-2014, quando -speriamopotrebbe
esserci un altro governo a fronteggiare l'emergenza economica.
Dopo mesi di inutile ottimismo e di stupida sottovalutazione della portata della
crisi, il governo si trova a dover prendere amaramente atto del fallimento della
sua politica economica, della fallacia delle sue previsioni iniziali, della futilità
delle speranze dell'”effetto traino” legato alla possibile ripresa dell'economia
mondiale. Dopo tre anni di provvedimenti tappabuchi, di mezzemisure
all'insegna del marketing e di fumo negli occhi, la situazione economica del
paese è gravissima, ed il peggio deve ancora venire. Avere tenuto sotto
(parzialissimo) controllo i conti pubblici, senza rilanciare l'economia e la
domanda interna, senza dare adeguata protezione sociale ed ai redditi si è
dimostrata una strategia fallimentare ed autolesionista, senza futuro.
La manovra di queste ore ne è la dimostrazione, e ora ne paghiamo il prezzo E
ancora una volta a subirne le conseguenze è la parte più debole del paese:
pensionati, lavoratori a basso reddito, consumatori, utenti dei servizi pubblici.
La reintroduzione dei ticket, l'inserimento dei costi standard nella sanità, la
riduzione dei trasferimenti agli enti locali, il blocco degli stipendi nella pubblica
amministrazione, l'intervento sulle pensioni stanno lì a dimostrare quanto
ancora una volta il prezzo della crisi è pagato dalla fasce sociali più deboli. Tra
i più colpiti sono i giovani: e con loro organizzeremo a Lamezia Terme la
prossima edizione della controcernobbio, dal 1 al 3 settembre, in cui
discuteremo di un piano nazionale del lavoro per i giovani e rilanciare la scuola
e l'università publica.
E' possibile, era possibile fare diversamente?
Sbilanciamoci -con la sua manovra da 50 miliardi di euro in 3 anni (per le
proposte nel dettaglio www.sbilanciamoci.org- - dimostra che si può fare.
Anche tagliando la spesa pubblica: quella militare, delle grandi opere, per le
scuole private, per il business della sanità privata. E con una politica fiscale che
colpisca le rendite e non i salari, i grandi patrimoni e non i bassi redditi, i
consumi ecologicamente dannosi e non i consumi pubblici ed i servizi sociali. E'
possibile garantirsi in questo modo un flusso costante di risorse da destinare da
una parte all'abbattimento del debito e dall'altra a dare protezione sociale a chi
è colpito dalla crisi e a rilanciare un'economia diversa fondata su un nuovo
modello di sviluppo.
Serve una tassa sui patrimoni milionari (che ci porterebbe oltre 10 miliardi di
euro di entrate), bisogna portare la tassazione delle rendite al 23% e
aumentare l'imposizione fiscale sui redditi superiori ai 70mila euro annui dal 43
al 45%. Nel contempo è necessario ridurre del 20% la spesa militare e
cancellare il programma di 131 cacciabombardieri F35 (che ci costano più di
16miliardi di euro). Questi sono passi obbligati in tempi di crisi: in Germania e
in Gran Bretagna sono state ridotte le spese militari, in Italia, ancora no.
E servono misure per rilanciare l'economia attraverso un programma di
"piccole opere" (cancellando Ponte sullo Stretto e Tav), di sostegno alla green
economy (energie rinnovabili, mobilità sostenibile, agricoltura biologica, ecc),
di incentivo e difesa dei redditi, unica garanzia perchè possa riattivarsi una
domanda interna. In questo senso la lotta al precariato, il sostegno alle
pensioni più basse, il recupero del fiscal drag e il reddito di cittadinanza sono
misure assolutamente necessarie in questa fase.
L'Italia con questo governo e con le politiche fatte negli ultimi tre anni rischia di
“uscire” dalla crisi ancora peggio da come ci era entrata. Altri paesi stanno
aggiustando la mira, stanno cambiando in parte le loro politiche, si stanno
dando, almeno in parte, una vera politica economica ed industriale. Il governo
Tremonti ha assecondato un nefasto mix di corporativismo, assistenzialismo e
neoliberismo che sta portando l'economia italiana verso una situazione di
neofeudalesimo economico. La distruzione del capitale umano e sociale
(l'università, la scuola, la coesione sociale, il welfare) rischia di avere effetti
nefasti per il futuro e di produrre un livellamento verso il basso accompagnato
però dall'accentuazione della forbice delle diseguaglianze, dalla crescita dei
privilegi e del disagio sociale. E' ora di cambiare rotta, mettere questo governo
quanto prima nelle condizioni di non nuocere e ricostruire le ragioni della
speranza di un paese diverso: con un modello di sviluppo fondato sulla
sostenibilità ed i diritti.

Leggi il testo completo della Contromanovra Finanziaria di SBILANCIAMOCI