10 giugno 2014

L'economia la fa il metodo

Le "Idee eretiche" di Altreconomia 159


Dalle relazioni di dono al trusteeship gandhiano, che mette al centro la fiducia e non il possesso. Sono gli esempi -necessari- di un modello nuovo, per uscire dal conformismo e dall'ignoranza.
Il commento di Roberto Mancini


Un metodo nuovo per l’economia. È una svolta capace di portarci oltre il deserto dell’ignoranza e del conformismo, nel quale restano arenati sia la Commissione europea sia i governi succedutisi in Italia, da Berlusconi a Renzi.

Ma dove attingere gli elementi per questa profonda trasformazione della cultura? Dai primi del ‘900 a oggi si è sviluppata la ricerca di modelli economici alternativi al modello capitalista e a quello del socialismo reale. Penso anzitutto all’economia delle relazioni di dono, che pone al centro la relazione tra le persone e la cura per ciò che dà loro da vivere. Al di là dell’economia formale capitalista, in molte aree del mondo (Africa, Asia, America Latina) è praticata questa economia popolare. “Dono” non significa “regalo”, ma dinamica di condivisione. Grazie a questa pratica alcuni popoli sono riusciti a sopravvivere all’impatto con il modello occidentale. Bisogna poi ricordare l’economia gandhiana della trusteeship. Basata sull’opera di Gandhi e sperimentata in India, tale concezione muove dal riconoscimento del fatto che l’economia è parte integrata dell’etica del bene comune. Il soggetto economico non deve attaccarsi al possesso, ma lavorare nello spirito dell’amministrazione fiduciaria (trusteeship). I talenti ci sono dati perché portino frutto per noi, ma anche per gli altri: il lavoro è servizio. Il vero soggetto dell’economia è la comunità locale, i cui talenti e le cui tradizioni servono a garantire la sussistenza e all’equo scambio commerciale dei propri prodotti tipici con le altre comunità del mondo.
Non va del resto dimenticata l’economia di comunità proposta da Adriano Olivetti e sperimentata a Ivrea. È un’idea nata dallo spirito cristiano della fraternità e dallo sforzo di tradurla in un ordinamento democratico comunitario. La rappresentanza democratica non può reggersi solo sul suffragio universale; va integrata dalla rappresentanza delle comunità territoriali, delle forze del lavoro e del mondo della ricerca. L’impresa è un bene comune, che respira con la vita democratica.
Sorta dagli studi di Nicholas Georgescu-Roegen, la prospettiva della bioeconomia configura un’economia radicalmente ecologica, che tiene conto della legge dell’entropia: per produrre qualcosa in realtà consumiamo energia e materia in quantità maggiori del prodotto stesso. Dobbiamo quindi orientare l’economia non alla crescita, né al mito dello sviluppo sostenibile, ma al risparmio, al riuso, al riciclo, al restauro, per mantenere aperto il futuro anche alle prossime generazioni. Tale intuizione è stata ripresa dal progetto delle decrescita di Serge Latouche, che punta instaurare la cura dei beni e delle risorse secondo criteri di sobrietà e di sviluppo dei beni relazionali.
Occorre anche considerare l’economia di comunione e l’economia civile. Nata dall’intuizione di Chiara Lubich e dal movimento dei Focolari, questa tendenza introduce in economia la logica della comunione attraverso la riorganizzazione dell’impresa. Il profitto va suddiviso nelle seguenti quote: una parte del profitto va all’imprenditore e a tutti i lavoratori, una parte per la solidarietà sociale, una parte per reinvestire nell’azienda in quanto bene comune, una parte per finanziare attività educative che formino persone all’altezza dello spirito di comunione. Da questa idea si è sviluppata la prospettiva dell’economia civile ad opera di Luigino Bruni e Stefano Zamagni. Essi affermano che il mercato va trasformato, da dispositivo di guerra di tutti contro tutti in un luogo di reciprocità. Da parte sua l’economista austriaco Christian Felber ha prefigurato l’economia del bene comune, in una visione che sostituisce al prodotti interno lordo (Pil) il Bilancio del bene Comune e subordina il profitto riducendolo a fine secondario dell’attività economica.
Più di 1500 imprese hanno aderito a questo progetto in Germania, Austria, Svizzera e Italia. Felber prevede lo sviluppo del credito cooperativo, la nazionalizzazione di gran parte delle banche e la chiusura delle Borse. Ricordo infine l’economia solidale e partecipativa. È un modello che punta sulla logica dell’equità e della solidarietà, nonché sulla pianificazione democratica partecipata. Tra gli esponenti di questa concezione segnalo Michel Albert, Albert Fresin e Peter Ulrich. Tutti questi modelli -se approfonditi, correlati tra loro e attuati- sono affluenti preziosi per la messa a punto di un metodo integrato in economia che farà del capitalismo nulla più che un triste ricordo.

Oltre euro e antieuro


di Andrea Papi

rivista anarchica
anno 44 n. 390   giugno 2014


Bisogna trovar la maniera di andare oltre il denaro per come è definito, organizzato e concepito. Bisogna ripensare come ricostruire autentici strumenti di scambio, questa volta autogestiti dalle comunità e non lasciati alle gestioni autoritarie della speculazione finanziaria.

La rappresentazione che continuiamo a farci del mondo è irrimediabilmente antropocentrica. Espone esclusivamente il punto di vista umano, che abusivamente si autoconsidera l'unica specie animale padrona, depositaria indiscussa del pianeta terra. Inoltre è discriminante nei confronti della gran massa dei più deboli, degli oppressi e dei sottomessi. Uno sguardo criminalmente parziale, che obnubila la consapevolezza e l'ammissione della letale tragicità con cui la nostra specie opera quotidianamente.
Gli strumenti che l'umanità continua a rendere operativi, motivandoli con una sempre meno convincente ricerca di “stare meglio”, continuano a trasformarsi regolarmente in lacci, gabbie, massacri, genocidi e stimoli per decessi suicidi. In pratica tutto e tutti siamo esposti a continui effetti deleteri. Solo un'esigua minoranza, sempre meno definibile come elite dal momento che non si tratta certo dei migliori, può difendersi perché possiede risorse per approntare mezzi adeguati, supportata dagl'ingenti capitali che le derivano dalle continue rapine perpetrate contro la stragrande maggioranza delle popolazioni che, ignare della partita che si gioca sul loro capo, ne subiscono invece le deleterie conseguenze.
Dentro un contesto culturale e d'azione che procede esclusivamente per dominare, mentre tutto finge di mostrarsi aperto verso mete dall'aspetto affascinante, la cosiddetta “globalizzazione”, cioè l'incontrollabile circolazione sovraterritoriale ed extrastatale di qualunque cosa, non fa altro che favorire sistematici effetti devastanti. In tal senso, per esempio, è illuminante e altamente significativa la propagazione planetaria sia delle malattie sia delle finanze che, pur muovendosi in campi molto distanti fra loro, entrambe producono effetti di massa particolarmente deleteri proprio in ragione della loro sostanziale capacità di espansione. Hanno in comune che scorrazzando liberamente producono disastri.
In un mondo sempre più interconnesso virus e batteri viaggiano in aereo e possono raggiungere in poche ore ogni angolo del pianeta. Secondo le statistiche dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità), le malattie veicolate da insetti uccidono ogni anno un milione di persone, su più di un miliardo d'individui infettati nello stesso arco di tempo, e più della metà della popolazione mondiale sarebbe a rischio. Poi ci sono le cosiddette malattie tropicali dimenticate, come ad esempio la lebbra e la Dengue, un'infezione virale tropicale trasmessa dalla puntura della zanzara “Aedes aegypti” che nella sua forma più grave può provocare febbri emorragiche, che colpiscono più di un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo. Cifre che, sebbene allarmanti, in realtà sottostimano le gravi conseguenze sui sopravvissuti, come cecità, mutilazioni e altri handicap – afferma Margaret Chan, direttore generale dell'Oms. I fattori che favoriscono la diffusione globale di queste patologie sono molteplici. Oltre ai super citati cambiamenti climatici contribuiscono la sistematica rapida urbanizzazione, le inarrestabili sciagurate deforestazioni, l'agricoltura intensiva, il turismo di massa in continua rapida espansione e la colonizzazione di nuovi territori, ormai sempre meno circoscritti alle aree più depresse.

Folle accumulo di ricchezze
 La finanziarizzazione dell'economia invece, che opera attraverso le reti telematica ed elettronica globali, dal canto suo agisce su un piano di realtà virtuale che viaggia all'inimmaginabile velocità di nanosecondi (un nanosecondo corrisponde a un miliardesimo di secondo), riuscendo a imporre ad intere popolazioni condizioni di vita altamente diseguali, in moltissimi casi aberranti.
Da una parte favorisce solo un'esigua minoranza privilegiata, per conto della quale secondo dopo secondo accumula rendite finanziarie che raggiungono cifre iperboliche. Dall'altra parte, attraverso meccanismi e automatismi fuori controllo e al di là di ogni supposta regolamentazione, per realizzare questo folle accumulo di ricchezze concentrato in un numero infimo di mani costringe masse ingenti di persone a vivere in condizioni indigenti. Poveri o sotto la soglia di povertà, schiavizzati, ricattati e sottomessi, non protetti da nessuno e sottoposti alla prepotenza sistematica di normative e regolamenti che solo i ricchi riescono tranquillamente ad aggirare, gli altri, i non ricchi, subiscono sistematicamente soprusi e prevaricazioni insopportabili, anche fino alla morte all'inedia e all'impotenza. Siamo precipitati in un incubo che sta superando ogni immaginazione sui peggiori effetti della supremazia capitalista.
Di fronte a un tale desolante scenario, in questo terribile panorama le cui tinte sembrano più orride che fosche, rischia di diventare fasulla la contrapposizione diadica “euro o non euro?” che in Europa sta avviluppando la propaganda politica di ogni parte istituzionale in causa. Il problema non può essere racchiuso e limitato a soluzioni, solo apparentemente tecniche, che vanno alla ricerca di come rimettere in moto l'economia. È questo sistema economico e finanziario che non va e che, per sua stessa natura, produce mostri.
Per avere un'idea delle prospettive verso cui stiamo marciando con grande celerità è interessante la riflessione di Federico Rampini. Su “la Repubblica” del 3 aprile riporta lo scenario prospettato dall'esperto di finanza Sorkin sul New York Times. Nel 2040, o giù di lì, saremo pienamente entrati nell'era post-monetaria. Il denaro non si userà più perché ogni acquisto ci verrà addebitato, senza neanche accorgercene, direttamente sul conto personale aperto sullo smartphone, oppure identificandoci pupille, impronte digitali e impronte facciali con tecniche biometriche. Pagheremo tutto non con monete tradizionali, come euro o dollari, ma con monete virtuali emesse da Google o Facebook, oppure con crediti accumulati attraverso le spese su Amazon o i Tunes.

Una dicotomia dialettica destinata ad essere superata
L'era post-monetaria in parte è già iniziata. Giappone e Corea del sud, per esempio, usano già da un po' gli smartphone come portafogli virtuali. In Svezia, nella metropolitana di Londra, perfino in Kenia, stanno sperimentando l'uso di massa del telefonino come carta di credito per pagare vari servizi. E sempre di più si usano il PayPal di eBay e i sistemi di addebito che usano il software Android sui telefonini Samsung.
Nella prospettiva di cui parla Rampini l'esistenza del denaro quale mezzo di transazione smette di essere un problema eminentemente economico, per diventare un problema squisitamente di potere (potere di controllo, di prelievo, di indirizzo, ecc.). Personalmente non so se arriveremo mai alla condizione prospettata dalla “post-moneta”, cioè ad una totale mancanza dell'uso monetario sotto qualunque forma. Quello che invece mi sembra di capire è che stiamo avanzando verso un cataclisma sociale in cui il denaro si userà sempre meno, per essere progressivamente sostituito da mezzi di controllo sugli individui, come cip, carte di credito, prodotti finanziari e quant'altro, che non gestiremo direttamente e che ci verranno prelevati alla fonte da forze sovrastanti che decidono tutto al posto nostro in nome nostro.
Il problema allora sarà sempre meno se val la pena di far parte dell'euro o no, perché qualsiasi sia la moneta che useremo verremo di fatto giocoforza incanalati in un altro sistema di “acquisto-consumi”, non più basato su mezzi concretamente tangibili come la carta moneta, ma su operazioni computerizzate via etere la cui base non è materiale ma virtuale. Il fondamento di questo sistema non sarà più lo scambio volontario e consapevole, ma il controllo dei movimenti individuali e la perdita dell'autonomia. Sarà il trionfo più completo dell'ingerenza del dominio direttamente nella condizione esistenziale delle persone.
Euro o non euro è una dicotomia dialettica che a breve sarà superata dai fatti, da uno status delle cose oltre l'uso del denaro, obbligante con tutti i vincoli e le limitazioni che più che condizionare l'esistenza la incatenano. Un'impostazione che sta perdendo totalmente le caratteristiche del mezzo di scambio, ormai solo finalizzata a controllare, condizionare e obbligare, in modo che non si riesca più a sottrarsi alla condizione di dipendenza su cui si fondano le società del dominio, oggi potenti più che mai. Il problema vero allora va cercato e identificato nel trovar la maniera di andare oltre il denaro per come è definito organizzato e concepito. Bisogna ripensare come ricostruire autentici strumenti di scambio, questa volta autogestiti dalle comunità e non lasciati alle gestioni autoritarie della speculazione finanziaria.                
Andrea Papi