Dalla periferia fiorentina un esempio di microcredito di prossimità, costruito sulle esigenze degli abitanti di un quartiere del 'ricco' Nord del mondo
12 dicembre 2011
Dal Forum “Via di uscita”- Firenze 9 dicembre 2011 Proposta di Appello Europeo per “Un’altra strada per l’Europa”
La crisi dell’Europa è l’esaurirsi di un
percorso fondato sul neoliberismo e sulla finanza. Negli ultimi vent’anni il
volto dell’Europa è stato il mercato e la moneta unica, liberalizzazioni e bolle
speculative, perdita di diritti ed esplodere delle disuguaglianze. Alla crisi
finanziaria, le autorità europee e i governi nazionali hanno dato risposte
irresponsabili: hanno rifiutato di intervenire con gli strumenti dell’Unione
monetaria per arginare la crisi, hanno imposto a tutti i paesi politiche di
austerità e tagli di bilancio, che saranno ora inseriti nei trattati europei. I
risultati sono che la crisi finanziaria si estende a quasi tutti i paesi, l’euro
potrebbe saltare, si profila una nuova grande depressione, c’è il rischio della
disintegrazione dell’Europa.
- Ridimensionare la finanza. La finanza – all’origine della crisi – dev’essere messa nelle condizioni di non devastare più l’economia. L’Unione monetaria dev’essere riorganizzata e deve garantire collettivamente il debito pubblico dei paesi che adottano l’euro; non può essere accettato che il peso del debito distrugga l’economia dei paesi in difficoltà. Tutte le transazioni finanziarie devono essere tassate, devono essere ridotti gli squilibri prodotti dai movimenti di capitale, una regolamentazione più stretta deve impedire le attività più speculative e rischiose, si deve creare un’agenzia di rating pubblica europea.
- Integrare le politiche economiche. Oltre a mercato e moneta servono politiche comuni in altri ambiti, che sostituiscano il Patto di Stabilità e Crescita, riducano gli squilibri, cambino la direzione dello sviluppo. In campo fiscale occorre armonizzare la tassazione in Europa, spostando il carico fiscale dal lavoro alla ricchezza e alle risorse non rinnovabili, con nuove entrate che finanzino la spesa a livello europeo. La spesa pubblica – a livello nazionale e europeo – dev’essere utilizzata per rilanciare la domanda, difendere il welfare, estendere le attività e i servizi pubblici. Le politiche industriali e dell’innovazione devono orientare produzioni e consumi verso maggiori competenze dei lavoratori, qualità e sostenibilità. Gli eurobond devono essere introdotti non per rifinanziare il debito, ma per finanziare la riconversione ecologica dell’economia europea, con investimenti capaci di creare occupazione e tutelare l’ambiente.
- Aumentare l’occupazione, tutelare il lavoro, ridurre le disuguaglianze. I diritti del lavoro e il welfare sono elementi costitutivi dell’Europa. Dopo decenni di politiche che hanno creato disoccupazione, precarietà e impoverimento, e hanno riportato le disuguaglianze in Europa ai livelli degli anni trenta, ora serve mettere al primo posto sia la creazione di un’occupazione stabile, di qualità, con salari più alti e la tutela dei redditi più bassi che la democrazia e la contrattazione collettiva.
- Proteggere l’ambiente. La sostenibilità, l’economia verde, l’efficienza nell’uso delle risorse e dell’energia devono essere il nuovo orizzonte dello sviluppo europeo. Tutte le politiche devono tener conto degli effetti ambientali, ridurre il cambiamento climatico e l’uso di risorse non rinnovabili, favorire le energie pulite, le produzioni locali, la sobrietà dei consumi.
- Praticare la democrazia.La forme della democrazia rappresentativa e della democrazia solciale attraverso partiti, rappresentanza sociale e governi nazionali, sono sempre meno capaci di dare risposte ai problemi. A livello europeo, la crisi toglie legittimità alle burocrazie – Commissione e Banca centrale – che esercitano poteri senza risponderne ai cittadini, mentre il Parlamento europeo non ha ancora un ruolo adeguato. In questi decenni la società civile europea ha sviluppato movimenti sociali e pratiche di democrazia partecipativa e deliberativa – dalle mobilitazioni dei Forum sociali alle proteste degli indignados in molti paesi – che hanno dato ai cittadini la possibilità di essere protagonisti. Queste esperienze hanno bisogno di una risposta istituzionale. Occorre superare il divario tra i cambiamenti economici e sociali di oggi e gli assetti istituzionali e politici che sono fermi a un’epoca passata. L’inclusione sociale e politica dei migranti è una condizione imprescindibile di promozione della convivenza civile e rappresenta un’opportunità per l’inclusione dell’area europea dei movimenti dell’Africa mediterranea che hanno rovesciato regimi autoritari.
- Fare la pace. L’integrazione europea ha consentito di superare molti conflitti, ma l’Europa resta responsabile della presenza di armi nucleari e di un quinto della spesa militare mondiale: 316 miliardi di dollari nel 2010. Con gli attuali problemi di bilancio, drastici tagli e razionalizzazioni della spesa militare sono indispensabili. L’Europa deve costruire la pace intorno a sé con una politica di sicurezza umana anziché di proiezione di forza militare. L’Europa si deve aprire alle nuove democrazie del Medio oriente, così come si era aperta ai paesi dell’Europa dell’est. Si deve aprire ai migranti riconoscendo i diritti di tutti i cittadini del mondo.
Per adesioni: info@reteasinistra.it
11 dicembre 2011
DALLE PENSIONI SI SPREME ASSISTENZIALISMO PER BANCHIERI
Molti commentatori hanno notato che la presenza di esponenti di Banca Intesa San Paolo nel governo Monti configura alcuni evidenti conflitti d'interessi, in particolare nel settore delle infrastrutture, data la partecipazione della banca al business dell'alta velocità. Un aspetto che invece è stato poco messo in evidenza concerne la riforma pensionistica, poiché da tempo le banche offrono ai clienti una serie di opzioni di previdenza integrativa privata, costituendo così una concorrenza alla previdenza pubblica. Intesa San Paolo non fa eccezione a riguardo, anzi è una delle banche più presenti nel settore della previdenza integrativa.[1] C'è da osservare però che in Italia la previdenza integrativa privata non ha mai riscosso particolare successo: solo il 23% di media, contro il 91% all'estero. La constatazione è stata fatta, con rammarico, dal presidente dell'INPS, Antonio Mastrapasqua, il quale qualche giorno fa ha invitato bruscamente i lavoratori italiani ad adeguarsi alla previdenza integrativa privata, da ritenersi, secondo lui, ormai "obbligatoria".[2] Che il presidente dell'ente pubblico INPS abbia assunto una posizione così sfacciata a favore della privatizzazione della previdenza, non risulta poi tanto sorprendente, poiché Antonio Mastrapasqua è anche vicepresidente esecutivo di Equitalia SpA, l'agenzia di esazione e di recupero crediti. In questa unione di cariche, così apparentemente incompatibili, c'è in effetti un messaggio molto evidente.[3] Si delinea quindi una precisa volontà, per la quale la previdenza pubblica viene messa in condizione di non erogare più il servizio per il quale era nata; infatti il sistema contributivo pubblico non corrisponde più al traguardo di percepire una pensione, ma si configura come un tributo tout court. Il servizio previdenziale dovrà quindi essere pagato privatamente, e le varie "riforme" delle pensioni vanno appunto nel senso di quanto dichiarato da Mastrapasqua: rendere "obbligatoria" quella previdenza privata che i lavoratori non gradiscono, e ciò semplicemente negando la previdenza pubblica, che diventa nient'altro che una fiscalità mascherata. Viene così creato artificiosamente e forzosamente un business ad uso delle banche e delle compagnie assicurative: il solito assistenzialismo per ricchi. Risulta infatti evidente dal bilancio dell'INPS, fornito dallo stesso Mastrapasqua, che i dati utilizzati per parlare di pensioni sono ampiamente truccati, come del resto si sa da sempre. A carico dell'INPS vi sono una serie di voci "improprie" che costituiscono il passivo dell'ente: il pagamento dei TFR anche delle aziende che falliscono - che sono invece un prestito forzoso dei lavoratori alle aziende -, i prepensionamenti, l'assistenza (handicap e non autosufficienza). Ma fanno la loro parte soprattutto i "fondi speciali", come la mitica "cassa di previdenza dei dirigenti d'azienda" (l'ex INPDAI) che, una volta fallita, è stata caricata sulle spalle del bilancio dei lavoratori dipendenti, che risulta invece in attivo. C'è anche però chi fa notare che, fondi speciali o meno, prima dell'arrivo di Equitalia il bilancio dell'INPS era sempre stato positivo per parecchi miliardi.[4] Ma ciò che dovrebbe screditare maggiormente l'emergenza-pensioni riguarda proprio la storia dell'ideologia bancaria, così come risulta dai protocolli e dalle dichiarazioni del Fondo Monetario Internazionale. Questa istituzione, fondata ufficialmente nel 1946 per accordi già presi nei due anni precedenti, ha costituito sin dall'inizio un tempio del lobbying bancario, dato che da sempre tutto il suo personale dirigente proviene dalle grandi banche d'affari internazionali.
Un saggio storico del 1975, "I Limiti della Potenza Americana" di Joyce e Gabriel Kolko, illustrava vari documenti del FMI e consentiva di riscontrare che le "misure di risanamento" proposte ed imposte nel 1946 erano le stesse di adesso: pareggio di bilancio, privatizzazioni e libertà di licenziamento. Anche allora la libertà di licenziamento veniva presentata come una misura per la crescita, poiché la disoccupazione era spacciata come condizione indispensabile per aumentare i livelli di produttività; mentre in realtà la disoccupazione serve solo ad aumentare i livelli di indebitamento delle masse. Queste misure furono imposte dal FMI anche al governo laburista che c'era allora in Gran Bretagna.[5] A scompaginare le pretese del FMI intervenne l'esasperarsi delle guerra fredda. L'anticomunismo pretestuoso e propagandistico del periodo 1947/1948 prese improvvisamente corpo e concretezza nel 1949 con l'ascesa di Mao in Cina, e con la guerra di Corea nel 1950, che comportò uno scontro diretto tra Cina ed USA. Nel 1954 i comunisti vinsero anche in Vietnam, ed allora le oligarchie occidentali provarono davvero paura. La minaccia dell'espansione del blocco comunista determinò quindi la necessità di reperire consenso sociale in Occidente. Grazie al feticcio del pareggio di bilancio i banchieri possono tenere in ostaggio il debito degli Stati, ma sotto la spinta della minaccia comunista negli anni '50 il feticcio fu messo da parte, e si aprì così la strada al compromesso socialdemocratico che ha retto sino agli anni '70. Gli storici si sono incaricati di costruire il mito del piano Marshall per giustificare lo sviluppo dell'Europa, ma, in base ai programmi ufficiali del FMI, quello sviluppo non era affatto previsto. Caduta venti anni fa la remora della guerra fredda, il lobbying bancario non solo si è ripresentato negli stessi termini del 1946, ma non ha trovato più nessun contrasto a livello politico. Da venti anni la NATO non incontra più ostacoli da parte di Russia e Cina, e può comportarsi nel mondo come la faina nella stia dei polli; quindi l'Occidente non ha più la necessità di cercarsi consenso sociale con il Welfare. Non si tratta di rimpiangere un blocco comunista già eroso dall'interno dalla fame di affari e di privilegi delle sue nomenklature, ma semplicemente di constatare che ogni passo avanti dell'imperialismo comporta un automatico passo indietro delle garanzie sociali; e ciò dovrebbe far riflettere gli "equidistantisti" nel momento in cui la NATO prepara aggressioni alla Siria o all'Iran. C'è anche da osservare che sotto qualsiasi longitudine o latitudine, ed in qualunque momento storico, le ricette del FMI non cambiano mai: pareggio di bilancio, privatizzazioni, licenziamenti; e ciò va a sfatare anche il mito dei "tecnici", visto che basta la terza elementare per ripetere sempre la stessa filastrocca.
[1]http://www.intesasanpaolo.com/scriptIbve/retail20/RetailIntesaSanpaolo/ita/prev_complem/ita_prev_complem.jsp
[2] http://archiviostorico.corriere.it/2011/dicembre/02/Mastrapasqua_rendite_integrative_avanti_piano_co_8_111202005.shtml
[3]
http://www.inps.it/portale/default.aspx?lastMenu=4923&iMenu=1&iNodo=4923%3f
[4] http://archiviostorico.corriere.it/2011/ottobre/02/Pensioni_Salvate_dai_Precari_co_9_111002009.shtml
[5]
http://www.ibs.it/code/9788806423902/kolko-gabriel/limiti-della-potenza.html
http://www.comidad.org/dblog/default.asp
Un saggio storico del 1975, "I Limiti della Potenza Americana" di Joyce e Gabriel Kolko, illustrava vari documenti del FMI e consentiva di riscontrare che le "misure di risanamento" proposte ed imposte nel 1946 erano le stesse di adesso: pareggio di bilancio, privatizzazioni e libertà di licenziamento. Anche allora la libertà di licenziamento veniva presentata come una misura per la crescita, poiché la disoccupazione era spacciata come condizione indispensabile per aumentare i livelli di produttività; mentre in realtà la disoccupazione serve solo ad aumentare i livelli di indebitamento delle masse. Queste misure furono imposte dal FMI anche al governo laburista che c'era allora in Gran Bretagna.[5] A scompaginare le pretese del FMI intervenne l'esasperarsi delle guerra fredda. L'anticomunismo pretestuoso e propagandistico del periodo 1947/1948 prese improvvisamente corpo e concretezza nel 1949 con l'ascesa di Mao in Cina, e con la guerra di Corea nel 1950, che comportò uno scontro diretto tra Cina ed USA. Nel 1954 i comunisti vinsero anche in Vietnam, ed allora le oligarchie occidentali provarono davvero paura. La minaccia dell'espansione del blocco comunista determinò quindi la necessità di reperire consenso sociale in Occidente. Grazie al feticcio del pareggio di bilancio i banchieri possono tenere in ostaggio il debito degli Stati, ma sotto la spinta della minaccia comunista negli anni '50 il feticcio fu messo da parte, e si aprì così la strada al compromesso socialdemocratico che ha retto sino agli anni '70. Gli storici si sono incaricati di costruire il mito del piano Marshall per giustificare lo sviluppo dell'Europa, ma, in base ai programmi ufficiali del FMI, quello sviluppo non era affatto previsto. Caduta venti anni fa la remora della guerra fredda, il lobbying bancario non solo si è ripresentato negli stessi termini del 1946, ma non ha trovato più nessun contrasto a livello politico. Da venti anni la NATO non incontra più ostacoli da parte di Russia e Cina, e può comportarsi nel mondo come la faina nella stia dei polli; quindi l'Occidente non ha più la necessità di cercarsi consenso sociale con il Welfare. Non si tratta di rimpiangere un blocco comunista già eroso dall'interno dalla fame di affari e di privilegi delle sue nomenklature, ma semplicemente di constatare che ogni passo avanti dell'imperialismo comporta un automatico passo indietro delle garanzie sociali; e ciò dovrebbe far riflettere gli "equidistantisti" nel momento in cui la NATO prepara aggressioni alla Siria o all'Iran. C'è anche da osservare che sotto qualsiasi longitudine o latitudine, ed in qualunque momento storico, le ricette del FMI non cambiano mai: pareggio di bilancio, privatizzazioni, licenziamenti; e ciò va a sfatare anche il mito dei "tecnici", visto che basta la terza elementare per ripetere sempre la stessa filastrocca.
[1]http://www.intesasanpaolo.com/scriptIbve/retail20/RetailIntesaSanpaolo/ita/prev_complem/ita_prev_complem.jsp
[2] http://archiviostorico.corriere.it/2011/dicembre/02/Mastrapasqua_rendite_integrative_avanti_piano_co_8_111202005.shtml
[3]
http://www.inps.it/portale/default.aspx?lastMenu=4923&iMenu=1&iNodo=4923%3f
[4] http://archiviostorico.corriere.it/2011/ottobre/02/Pensioni_Salvate_dai_Precari_co_9_111002009.shtml
[5]
http://www.ibs.it/code/9788806423902/kolko-gabriel/limiti-della-potenza.html
http://www.comidad.org/dblog/default.asp
03 dicembre 2011
LA FINE DEL PENSIERO UNICO
Cristiano
Lucchi intervista Roberta Carlini di Sbilanciamoci. Introduce Ornella De Zordo
La grande crisi ha portato via con sé parecchie certezze: milioni di posti di lavoro, case, mutui, pensioni, sanità, scuole e università. Ma anche il mito della stabilità e della crescita come elementi naturali del sistema oltre al castello di carte dell'economia finanziaria e a un bel pezzo dell'economia reale. La grande crisi ha chiuso anche con una certa concezione dell'economia, con quel pensiero unico che ha dominato la politica, culturale e accademica negli ultimi trent'anni. Roberta Carlini, giornalista dell'Espresso, coordina il sito di informazione economica www.sbilanciamoci.info. Ha pubblicato "L'economia del noi". Un viaggio in sei tappe (consumo, credito, casa, imprese, rete) nell'Italia che ha imparato a condividere.
Il terzo
appuntamento del ciclo d’incontri organizzato dalla lista di cittadinanza
perUnaltracittà e da DemocraziaKmZero per approfondire i temi della crisi
economica e finanziaria, si è svolto sabato scorso con l’intervista di
Cristiano Lucchi a Roberta Carlini. Un percorso che continuerà mercoledì 7 dicembre
alle ore 16,30 con gli interventi di Pier Luigi Cervellati, Giovanni Maffei
Cardellini e Daniele Vannetiello che ha curato il volume: “Dove va
l’urbanistica”. A seguire, martedì 13 dicembre, sempre alla stessa ora,
Cristiano Lucchi e Gianni Sinni ci guideranno alla conoscenza della loro ultima
fatica realizzata a quattro mani: “Autopsia della politica italiana”. Insomma,
un dicembre che sia annuncia come preludio ad un 2012 ancora più ricco (…almeno
di appuntamenti!!).
Roberta Carlini si presenta come una
delle voci più autorevoli delle tante forme ed espressioni assunte dalla
sinistra italiana. Aperta, plurale, problematica e critica, si fa portatrice di
un insolito crogiolo di esperienze e vissuti diversi. Una sensibilità
poliedrica che anima anche l’ultimo suo libro: L’economia del noi. L’Italia che
condivide (2011, Laterza). Un viaggio in quella parte della società
italiana che ricerca “soluzioni comunitarie e partecipate ai problemi
economici”. Un’inchiesta, un testo anti-teorico, una cascata di buone pratiche
e di percorsi condivisi. L’autrice permea tutto il suo argomentare attorno alla
dicotomia io/noi. In contrapposizione all’homo
oeconomicus, che agisce in ogni ambito della propria esistenza
(dall’acquisto di un bene alle scelte politiche) con la sola finalità della
massimizzazione dell’utilità attesa, emerge e si rafforza un soggetto che
insegue criteri altri: “reciprocità, solidarietà, socialità”. Un’Italia poco
conosciuta, animata dalle innumerevoli esperienze delle comunità resistenti sorte
nel deserto sociale generato dall’avanzata neo-liberista e nello svuotamento di
senso che il populismo di destra ha operato sul concetto nobile di politica,
intesa come mezzo supremo di inclusione e partecipazione. Una rete vasta ed
eterogenea che ha saputo superare la nicchia ristretta nella quale viene spesso
collocata. Le sue parole d’ordine hanno infatti trovato ascolto in un pubblico
vasto, i media mainstream hanno agito come cassa di risonanza imponendo così nuove
issues nell’agone pubblico che, almeno
in parte, sono state recepite e catturate dalle strutture di potere esistenti.
Tale processo, apparentemente virtuoso, celerebbe però numerosi rischi. Come
scriveva Herbert Marcuse: “Come possono protesta e rifiuto trovare la parola
giusta quando gli organi dell’ordine costituito ammettono che la pace consiste
realmente nel trovarsi sull’orlo della guerra? Quando la linea etica di una banca è la speculazione più bieca?”
(corsivo nostro). Le oltre trentacinque esperienze raccontate da Roberta
Carlini nel suo viaggio si raggruppano in cinque grandi categorie: consumo,
credito, case, imprese, web. Un’esplorazione di una terra semi-sconosciuta che
reca l’invito a ricercare soluzioni diverse rispetto al paradigma dominante, a
sostituire “la condivisione alla divisione, la cooperazione alla
frammentazione”. Un agire collettivo che diventa prassi politica nella
partecipazione che si contrappone al silenzio sceso nelle piazze delle nostre
città, nello strepitare convulso delle discussioni assembleari come unica medicina
al fruscio cadenzato delle televisioni costantemente accese. L’autrice immagina
che questi gruppi resistenti ed auto-organizzati potrebbero in futuro invadere
la scena politica con le loro soluzioni e il loro agire, generando così un
cortocircuito virtuoso tra impegno personale e rappresentanza politica: due
binari che continuano, almeno per ora, a correre desolatamente paralleli senza
incontrarsi.
Nella seconda parte dell’incontro, le
domande di Cristiano Lucchi conducono Roberta Carlini lungo gli altri sentieri
che l’ex vice-direttrice de Il Manifesto
percorre nelle molte attività svolte: giornalista, coordinatrice del sito di
informazione economica sbilanciamoci.info, caporedattrice di ingenere.it.
Proprio l’uscita pochi giorni prima del nostro incontro della tradizionale
contro-manovra finanziaria di Sbilanciamoci!,
si presenta come l’occasione per addentrarci nei temi della stringente
attualità. Nonostante le difficoltà dovute alle quattro manovre varate dalla
scorsa estate, anche quest’anno Sbilanciamoci!
mostra come sia possibile una finanziaria completamente diversa, pur accettando
le medesime compatibilità del bilancio pubblico. In estrema sintesi, la
dimostrazione lampante di come sia possibile compiere scelte profondamente
diverse pur rimanendo all’interno dello stesso sistema di produzione. La
contro-manovra ricava infatti le risorse necessarie al bilancio statale dalla
cancellazione delle spese per le Grandi Opere, dalla soppressione dei
finanziamenti alle scuole private, dai tagli alle risorse destinate alle spese
militari e all’acquisto degli ormai famosi F-35 (non citando ad esempio la
necessaria lotta all’evasione in quanto si basa su azioni che già oggi potrebbero
essere messe in atto senza previsioni incerte e futuribili). Un progetto che
mostra esplicitamente come siano i rapporti di forza in seno alla società a
determinare le scelte della politica economica,sgombrando il campo da qualsiasi
pretesa di necessità oggettiva. Secondo Roberta Carlini, la crisi economica e
finanziaria che stiamo attraversando, paragonabile per gravità e virulenza
solamente a quella del 1929, non permette solo alle classi egemoni di attaccare
i diritti e i salari delle classi lavoratrici attraverso il falso mito dei
sacrifici comuni. Infatti, nella “macelleria sociale” che il governo Monti
sventola come “rigore, crescita, equità”, si cela anche una questione di
genere. I tagli nel pubblico impiego, settore dove è alta l’occupazione
femminile, collegandosi con quelli alla spesa pubblica, che generano
indirettamente un aumento del lavoro non retribuito per le donne italiane,
delineano un nuovo avanzamento delle differenze tra i generi in un Paese
tradizionalmente già lontano dagli standard europei. Roberta Carlini,
richiamando criticamente la proposta di “aliquote rosa” di Alberto Alesina e
Pietro Ichino, un tema ripreso anche da Matteo Renzi, offre ad Ornella De Zordo
la possibilità di ricordare l’allegra gestione del bilancio comunale
dell’attuale amministrazione. Una giunta così prodiga di slogan e buoni
propositi per la Firenze del 2020, da scordarsi l’avvicinamento del nostro
Comune al rischio di commissariamento. Strabismi della politica-evento, che
forse comincia a stancare anche i più accaniti sostenitori: Firenze 20vénti si
chiude infatti con una partecipazione di pubblico alquanto limitata. Speriamo
solo che sia il preludio ad un cambiamento radicale del vento in città.
Gianni Del Panta- perunaltracittà
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